Capitolo 1 - Fragili vite

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NORA

Prendi fiato e ricomincia.
Me lo ripetevo continuamente, ogni singolo giorno di quel che rimaneva della mia vita, la stessa che ormai, di mio, non aveva più niente.
I raggi caldi di un timido sole di settembre attraversavano le persiane della mia stanza e accarezzavano la guancia destra del mio viso, illuminandone una buona parte. Ero rimasta a contemplare il lieve tepore che generava in me quello spiraglio di luce, senza nemmeno accorgermi dello scricchiolio che aveva emesso la porta cigolante della camera.

«Buongiorno Nora» trionfò sorridente l'infermiera del turno mattutino, portando con se un vassoio che si apprestò a poggiare velocemente sullo sgabello ai piedi del mio letto. «Ho rubato la marmellata alle pesche dal carrello del paziente della 108 solo per te. Ti avevano dato quella alle prugne ma so che non ti piace» disse dolcemente, afferrando tra le mani un pacchetto di fette biscottate e avvicinandolo nella mia direzione.

«Grazie Delia» le risposi abbozzando un sorriso. Era ormai trascorso un anno e tre mesi da quando giacevo in quella struttura riabilitativa, avevo imparato a conoscere bene ogni infermiere o dottore che avesse avuto anche solo un turno in quel reparto, o con cui mi era capitato di scambiare semplicemente qualche parola. Le fratture da ricomporre, la salute mentale, quella fisica, troppe cose da recuperare.

«Sai che giorno è oggi, vero?» domandò sporgendosi verso di me, indossando un sorriso a trentadue denti. E come avrei potuto non ricordarlo?
Ottantacinque lunghissimi giorni in cui le uniche lenzuola su cui dormivo erano bianche come il latte, tipiche degli ospedali, in cui mangiavo pasti per lo più sconditi e privi di qualsiasi ingrediente ricordasse anche solo lontanamente un banale fast food. A volte avevo l'impressione di non ricordare nemmeno cosa significasse vivere fuori da quelle quattro mura.
«Avanti Nora, i tuoi genitori saranno qui a momenti!» mi redarguì Delia, con un'espressione corrucciata in viso. Ma io non mi mossi, rimasi impassibile malgrado il suo tono di voce si fosse alzato. Avevo sentito ciò che aveva detto, stavo solo decidendo se avessi voglia di affrontare quella giornata o se fosse il caso di nascondere la testa sotto le coperte e rimandare tutto al giorno dopo.

Il mio sguardo distratto di certo non convinse l'infermiera, che si sporse in avanti per guardarmi meglio in viso. «Che hai tesoro? Non sei felice forse?» domandò accarezzandomi il mento e lasciandosi cadere di peso sul mio letto.
Delia era stata al mio fianco sin dal giorno dell'incidente. Più volte nel corso di tutto quel tempo si era fatta cambiare dei turni per poter accedere al mio reparto, e quindi trascorrere più tempo assieme a me. Data la sua giovane età non avrei certo potuto considerarla una madre, ma una sorella maggiore magari si, di quelle con cui puoi scambiarti i vestiti o parlare di ragazzi fino a tarda notte. Spesso quando attaccava il suo turno si dirigeva immediatamente nella mia stanzetta, per raccontarmi qualche avventura che le era capitata la sera precedente in uno dei tanti locali che frequentava. Capitava spesso che si trovasse piena di corteggiatori, dopotutto aveva solo trentaquattro anni, dei capelli meravigliosamente ricci e vaporosi, una pelle perennemente abbronzata e un gran senso dell'umorismo, non c'era da stupirsi che piacesse a parecchi ragazzi.

«Ma si, non preoccuparti. E poi è solo una visita di controllo» sdrammatizzai, cercando di risultare il più convincente possibile. Non volevo che si preoccupasse per me, a dirla tutta, ero esausta di avere attorno gente che fosse costantemente in allerta per il mio stato di salute.

«Ma molto probabilmente è l'ultima. Non sto nella pelle io per te!» squittì sfoderando un sorriso gioioso.
Ero contenta di vederla così allegra, almeno una delle due lo era. Non che io non lo fossi, solo che ormai ero quasi abituata a quell'ambiente, a quelle persone, a quella routine, chi se la immaginava una vita fuori?

L'anagramma del mio nome - IN PAUSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora