Capitolo 3 - Columbia University

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NORA

La sensazione dell'asfalto umido e il suo odore acre sbattevano violentemente contro il mio naso, costringendomi a quello stato sgradevole da cui non potevo liberarmi. Il frastuono delle altre auto che sfrecciavano fino alla vettura in fiamme incendiava il brecciolino del suolo, centinaia di voci riecheggiavano nell'aria, accompagnate dal coro delle sirene della polizia.

«Venga qui. Si sbrighi, c'è una delle vittime dell'incidente. Sembra sia sveglia»

«Signorina, riesce a sentirmi?» domandò con voce soffice una delle infermiere appena scese dall'ambulanza, avvicinandosi cautamente al mio corpo steso sul cemento. «Mi sente?» domandò nuovamente, senza ottenere però da me alcuna risposta.
«Agente la borsa, la borsa della ragazza. La prenda» ordinò al poliziotto che l'aveva avvisata dalla mia presenza.

Così l'uomo raccolse la mia pochette e iniziò a frugare al suo interno. Smise quando trovò il portafoglio ed estrasse da esso i documenti. «Nora Bailey» pronunciò l'agente, leggendo attentamente le mie informazioni e dettandole al suo collega che, intanto, si apprestava ad appuntarle. «Vive alla fine della quarantatreesima, vicino al cinema Luxury. Ha diciotto anni, compiuti oggi»

«Nora, riesci sentirmi?» domandò nuovamente l'infermiera. Distratta dalla conversazione del poliziotto, non mi accorsi che la donna posta in ginocchio al mio fianco, mi stava poggiando un pezzo di metallo sul petto, nel tentativo di controllare la frequenza cardiaca. «C'è battito. Portate una barella» mormorò sollevata, per poi rivolgersi ai suoi colleghi che, in fretta, estrassero l'oggetto da lei richiesto e lo condussero fino ai miei piedi.

«Ascoltami Nora, se riesci a sentirmi, di qualcosa» mi supplicò la donna che, amorevolmente, stava cercando di capire se fossi in uno stato vegetativo o meno. Avrei voluto parlare, risponderle e chiedere di Aron. Avrei voluto girare il collo ma qualcosa me lo impediva, probabilmente qualche articolazione a pezzi. Volevo sapere cosa avessero raccontato ai miei genitori, volevo sapere se avevano recuperato il corpo della mia Lizzie o se ancora bruciava tra le fiamme. Volevo solo che qualcuno mi svegliasse e mi dicesse che era solo un brutto incubo e che il mattino seguente mi sarei svegliata avvolta dal calore del mio fidanzato e nascosta tra le sue braccia.

Un sibilo fuoriuscì dalla mia bocca e fu l'unico modo che ebbi per far capire a quella donna che ero ancora viva.
«Frattura multipla alle ossa del bacino e lussazione della spalla sinistra. Respira a fatica, qualcosa di rotto nel suo sterno potrebbe aver danneggiato i polmoni. La situazione è delicatissima, dovete caricarla con la massima attenzione» ordinò severamente l'infermiera rivolta ai suoi colleghi che, con grazia, mi alzarono per poggiarmi sulla barella.
«Nora afferra la mia mano: stringila se in qualche modo ti fanno male, se senti dolore trova le forze per farmelo capire, non possiamo rischiare di causarti ulteriori danni»

Un dolore devastante, paragonabile a delle lame infuocate che si infliggevano contro la carne, si fece spazio sotto i pori della mia pelle, ricordandomi la portata delle ferite che avevo sul corpo. In poco tempo le luci del soffitto bianco dell'ambulanza si dipinsero davanti ai miei occhi. Percepii un lieve pizzicorio al braccio e capii che mi stavano infilando delle flebo.
Cercando in me fino all'ultimo briciolo della mia forza, tentando di comunicare con le infermiere. Non m'importava un accidente di cosa mi stessero facendo: volevo sapere di Aron. Come stava? Era ancora vivo?

Lui era vivo. Io lo sentivo, io percepivo la sua presenza.
«A-Aron» sussurrai in un filo di voce, che si perse nel frastuono generale. Nessuno mi sentii.
I miei occhi ruotavano cercando di capire qualcosa, alla ricerca di un contatto visivo, di un aiuto, di qualche informazione. Mi sentivo impotente, distrutta ed esausta.

L'anagramma del mio nome - IN PAUSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora