Capitolo 2

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Ritiro il caffè macchiato dalla macchinetta, con all'interno un esagerata quantità di zucchero.
Il caffè è l'unico alimento che introdurrei nel mio corpo ad ogni ora, sempre però con un abbondante dose di zucchero bianco a dolcificare la bevanda.
Strofino lievemente la nocca dell'indice sulla punta del mio naso, quando sento questo pizzicare, per poi riprendere svogliatamente il mio zaino dal pavimento e rimettermelo in spalla. Con calma mi dirigo nella biblioteca scolastica.
Sono circa le tre e venti del pomeriggio, le mie lezioni si sono concluse circa dieci minuti fa. Gli alunni che però sono ancora presenti nell'istituto sono svariati, questo a causa della moltitudine di corsi extra scolastici che si tengono, appunto, nel pomeriggio, al termine dell'orario scolastico.
Io momentaneamente non frequento nessun corso, secondo Willow è una scelta -parole sue- di merda. Questo perchè i corsi extra scolastici portano molti crediti, aiutano i ragazzi con una potenziale domanda ad un'Università. Per quanto mi riguarda, però, non so ancora se è una problematica da affrontare o meno, perchè sono poco certa di continuare gli studi dopo aver ottenuto il diploma, a Giugno.
In ogni caso, mi capita spesso di passare i miei pomeriggi nella biblioteca scolastica, è un posto tranquillo, dove posso studiare o leggere serena. Le più delle volte però è la seconda opzione. Inoltre, ho anche l'occasione di tornare il più tardi possibile a casa.
Silenziosamente, apro la porta della biblioteca, dirigendomi verso il fondo dell'enorme stanza, per sistemarmi al tavolo leggermente più isolato e nascosto rispetto agli altri; di solito non c'è mai nessuno in quello scrittorio.
Poso le mie cose al disopra della superficie in legno scuro, liberandomi della felpa grigia che porto, la poso sulla sedia, rimanendo con l'aderente canottiera nera a ricoprirmi il busto -lasciando che buona parte dei miei tattoo siano visibili-.
Mi passo una mano tra i capelli ondulati, sospirando silenziosamente.
Mi piace stare da sola, non sono una persona solitaria, non mi definisco così, però sono consapevole del fatto che da sola so starci. Non sono quel tipo di ragazza che piuttosto di rimanere da sola con i propri pensieri inizia a chiamare metà della propria rubrica, alla disperata ricerca di compagnia, quasi timorosa di stare da sola con se stessa. Non giudico chi lo fa, anzi, capisco la situazione che la persona affronta, semplicemente -col tempo- ho imparato a convivere con me stessa.
Io in primis, piuttosto frequentemente, provo un certo rancore nei miei confronti, per scelte decisamente discutibili che ho preso in passato, per come reagisco alle provocazioni, per come affronto un confronto, per come -a volte- rispondo ai miei amici, alle persone che a me ci tengono.
Penso molto su come formulare una frase, per renderla più coincisa e comprensibile possibile al destinatario. Perchè, per lo meno alla sottoscritta, capita che a volte non riesca a dire tutto ciò che penso, o non sia in grado di dirlo ad alta voce. Così mi assicuro che le persone con cui interagiscano capiscano ciò che intendo, voglio esserne certa.
Ho imparato a stare da sola, solo recentemente. Sto provando a convivere con la mia mente, anche se è piuttosto difficile per una persona che -come me- non fa altro che rimuginare, non fa altro che riflettere sul passato, presente e futuro.
Credo che il fattore principale sia la buona volontà, la costanza, quella sorta di spinta che ti porta a dirti che o impari a convivere con il tuo corpo e la tua mente o ti butti giù da un ponte, perchè è effettivamente impossibile sopravvivere una vita con i contrasti che ci auto creiamo, con quel senso di odio che proviamo per il nostro carattere, i nostri comportamenti, il nostro passato o il nostro aspetto estetico e fisico. Non credo che nessuno al mondo ne sia capace. E poi la gente è già abbastanza crudele di suo con coloro in cui non si rispecchiano, è meglio evitare di contribuire a farci del male.
Negli ultimi mesi ho imparato a rimboccarmi le maniche, ho imparato che niente è dovuto e che -nel bene o nel male- non ci si deve abituare a niente, tantomeno alle persone, all'affetto di queste, alla loro presenza. Tutto passa, tutto scorre.
Ancora in piedi, accostata alla scrivania, interrompo le mie attuali riflessioni a causa di un improvviso boato che, nonostante la discreta distanza, raggiunge le mie orecchie in maniera forte e decisa; si crea un eco nella stanza, obbligandomi a voltarmi verso qualsiasi cosa abbia creato tale frastuono, e di certo non è stato un libro caduto al suolo. Sobbalzo leggermente.
Alcune delle alte e impetuose librerie mi impediscono di poter vedere da dove sia partito tale frastuono. Così, cautamente, mi allontano dalla mia postazione, per dirigermi verso il punto in cui, credo, sia partito quel rombo, incuriosita da ciò.
Poggio una mano sul legno liscio di una libreria, sporgendo lievemente la testa al di fuori della corsia in cui mi trovo. La scena che mi trovo davanti è tanto inesorabile quanto -effettivamente- prevedibile, notando chi sono i carnefici di ciò che sta accadendo all'interno di queste imponenti mura.
Davanti agli occhi mi viene rappresentata l'immagine di Jaxon Emilton, un espressione ribollente misto al divertito a incorniciarli il volto chiaro. Emilton, tiene per una spalla un altro ragazzo di qualche centimetro inferiore a lui, a occhio e croce direi che è più piccolo, potrebbe essere del secondo anno. Il ragazzo è, letteralmente, spalmato contro la libreria. Ciò mi fa intuire che sia stato l'incontro del corpo del ragazzino con la pesante libreria a creare quel boato che ha risuonato nell'intera biblioteca.
Solo quando noto qualcosa muoversi nella parete difronte a loro, rilevo anche una terza persona.
Lunghe gambe coperte da un cargo in jeans nero, un'opaca giacca di pelle a coprire le ampie spalle, braccia conserte al petto e la schiena larga posata contro gli innumerevoli libri: Tyler Collins.
Quest'ultimo ha un espressione neutrale in viso, ma -comunque- il modo omicida in cui osserva il ragazzo che Jaxon sta trattenendo, basta e avanza a immaginare anche solo parzialmente quello a cui sta pensando.
Solitamente, mi faccio sempre i cazzi miei. Non mi piace intromettermi in cose che non mi riguardano, non mi piace insinuarmi in discorsi che non mi appartengono, in situazioni scomode. Perciò non capisco per quale assurdo motivo sia ancora qui ad osservare questa patetica scena.
Prima ancora che possa pensare di allontanarmi, una voce richiama la mia attenzione.
«Oh Johnson, possiamo aiutarti in qualche modo?» il tono utilizzato da Jaxon per dire tale frase è sin troppo alto per il luogo in cui ci troviamo.
Alzo lievemente un sopracciglio, facendo qualche passo in avanti, uscendo completamente da quella sorta di confort zone. Mi avvicino di poco ai ragazzi, il giusto per non urlare ma anche per non ritrovarmi a due palmi di distanza da loro, preferisco mantenere una certa distanza.
«Come sai il mio cognome?» mormoro, ma sicura che mi abbiano sentito, data l'espressione di Jaxon diventare lievemente più divertita.
«Ah, non lo sai? Tutti sanno tutto di tutti...alla Wallace» al contrario mio, Emilton non si preoccupa di mantenere un tono di voce adatto al contesto.
Il modo minatorio in cui mi osserva con le sue iridi chiare è al quanto modo raccapricciante. Non che questo mi stupisca, ho sentito delle voci -durante gli ultimi due anni- sui particolari caratteri di Collins e il suo gruppo. Ma questo non mi è mai interessato, realmente.
«Vattene, bambolina, fatti i cazzi tuoi» continua, Emilton, lasciando lievemente la presa sul giovane ragazzo dai capelli color catrame, così da aver una vista completa sulla mia figura.
Il modo in cui si comporta metterebbe a disagio chiunque, è inevitabile, eppure a me, per qualche assurdo motivo, incuriosisce solamente. Anche se, ammetto, che ad alimentare il mio interesse è il suo amico.
Tyler, è ancora immobile, con le spalle al muro e lo sguardo impiantato come chiodi sul ragazzino che Jaxon ancora tiene ferreamente con la sua presa. Sembra avere la situazione molto più nelle sue corde, stretta nelle mani, rispetto al suo fedele compagno, Jaxon è una mina vagante, pronta a esplodere e portare con sé tutti coloro che lo circondano.
«Cazzo, Johnson, ci sei o ci fai? Devo mandarti via io con la forza?» presto un ghigno malizioso traspare dalle sue labbra.
Mi limito a prendere un grosso sospiro, senza degnarlo di risposta.
Lancio un ultimo veloce sguardo ai tre ragazzi, prima di voltarmi e -lentamente- allontanarmi da quella bizzarra situazione.
In tutto ciò, il ragazzino dai capelli corvini, ha tenuto lo sguardo basso e tremolante sulle sue Converse rosse.
Non so perchè ho fatto la sciocchezza di continuare a rimanere lì, nonostante abbia visto com'era critica la situazione. Solitamente non sono così curiosa, è da quando loro non ci sono più che non mi capita una scena del genere, ossia di -quasi- impicciarmi in questioni che non mi riguardano minimamente.
Fatto sta, che non rispondere alle provocazioni di persone come Jaxon Emilton è sempre la scelta migliore. Non vedono l'ora che arrivi la persona che gli risponda, così da accendere la miccia e dare fuoco al sangue che gli scorre nelle vene. Persone come Emilton, il minimo che possono farti è ridurti la faccia irriconoscibile. Il minimo.

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