"Simone? Ma ancora così? Bisogna che ti muovi, figlio mio, o faremo tardi!" Dante era elegantissimo nel suo farsetto bordeaux che probabilmente era costato un sacco di fiorini di cui la famiglia non esitava a disfarsi. Simone deglutì forzatamente, mentre lo sguardo perso non abbandonava il paesaggio al di là dell'inferriata. Fu l'arrivo di un valletto, il cappello piumato perfettamente inclinato sul capo chino, a distogliere l'attenzione da sè. Dante si voltò verso il giovane che avrà avuto sedici anni e prese garbatamente la missiva che quello gli porgeva. Il giovane era irto in una posizione rigida, lo sguardo ancora basso in segno di riverenza. Tra i signori della città, suo padre era tra i più gentili, non lo aveva mai visto maltrattare nessuno, eppure riusciva a conservare quelle reverenza che si riserva solo a colui le cui pene inflitte sono giustamente meritate.
Srotolò la pergamena, mentre Simone si voltava di nuovo verso il paesaggio verdeggiante. Quel giorno, il cielo di Firenze era così terso da sembrare dipinto.
Continuò ad appuntarsi il farsetto svogliatamente: quel tessuto damascato decorato da un ricamo di piccole perle era soffocante, come soffocante era il peso del denaro che, così prezioso, rappresentava.
Era blu, il suo farsetto, e suo padre l'aveva fatto arrivare direttamente da Milano, tuttavia Simone riusciva solo a pensare che il costo di quel blu brillante sarebbe riuscito a sfamare almeno tre famiglie dei bassifondi, per mesi.
Finì di appuntarlo con la punta delle dita, sfiorando talvolta la camicia candida le cui maniche ricadevano morbide sui polsi sottili.
Fu un'esclamazione di suo padre a riportarlo alla realtà.
"Un affronto!"
Simone si voltò in tempo per vedere io padre fissare la pergamena sconvolto.
"Quale affronto?"
La voce di sua madre Floriana si intromise con una nota dolce in quel clima sempre più teso. L'espressione di Dante era sempre più cupa e lei non esitò a poggiargli una mano sulla spalla, in conforto.
A quel contatto, l'espressione di Dante si addolcì subito.
I suoi genitori non avevano un matrimonio perfetto, su questo non c'erano dubbi, ma Simone avrebbe barattato tutte i costosi farsetti e le sopravvesti eleganti del suo armadio per avere anche solo un attimo di quella stessa intesa con un altro essere vivente.
"Il Maestro doveva ritrarre oggi Simone, c'eravamo accordati tempo fa, eppure oggi mi arriva questa! Il ritratto lo farà imbastire da un suo allievo!"
Floriana ispezionò con attenzione la pergamena e poi rivolse uno sguardo dolce al marito, carezzandogli gentile la guancia.
"Suvvia, caro, sappiamo tutti com'è fatto quell'uomo. Un genio, certo, ma è famosa la sua sregolatezza. Non mi sorprende questo cambio di programma, e poi, i suoi allievi saranno sicuramente all'altezza del compito. Dicono lavori soltanto con i più meritevoli"
Dante la guardò e il cipiglio sul viso, lentamente, si fece calma e subito si girò verso il figlio, ancora incatenato a quel paesaggio magnifico.
"Va bene, allora, così sia. Simone, domani fatti trovar pronto prima dello scoccare della campana di mezzodì, va bene?"
A Simone non importava molto chi avrebbe realizzato quel ritratto che per suo padre era tanto importante, mentre per lui era solo l'ennesima ostentazione della loro opulenza.
Annuì, ubbidiente, e lasciò il farsetto allacciato a metà, che tanto appena sarebbe stato solo, l'avrebbe tolto e gettato nell'armadio di quercia nella sua stanza.
Che si fosse trovato di fronte il Maestro Michelangelo in persona o uno dei suoi allievi che duravano un mese o poco più, gli importava ben poco. Era poco avvezzo alle mode signorili, seppure non poteva che rimanere incantato di fronte ai capolavori che quel genio partoriva. A Simone piaceva l'arte, ma gli piaceva di più il vero: l'osservare la distesa verde dalla sua finestra, l'immaginarsi a viaggiare fino ad arrivare a nuovi orizzonti.
Tuttavia, suo padre era un noto mecenate; per quel motivo, la sua casa pullulava spesso di artisti più o meno talentuosi, poeti e filosofi che pretendevano di insegnare la vita: a volte ci riuscivano anche.
Certo, Simone era molto più affascinato dell'universo scientifico: il suo educatore non faceva altro che dirgli quanto sarebbe stato adatto come allievo di Cartesio, al tempo lontano dei grandi antichi.
Tuttavia, Simone era solo il figlio di Dante, erede di una delle casate più importanti di Firenze e tutto ciò che faceva o pensava non era sufficiente a staccargli di dosso quel nome, quel peso, quelle responsabilità.
Arrivò nelle sue stanze in fretta, gettò il farsetto senza grande cura nell'armadio ed afferrò un mantello dal gancio laterale al mobile. Ne scelse uno un po' più spesso sulla chiusura al petto, per evitare che gli spifferi che precedevano la primavera mettessero alla prova la sua già cagionevole costituzione.
Infatti, nonostante fosse di prestante statura, Simone tendeva ad ammalarsi spesso, specialmente da bambino. Quindi, sua madre gli raccomandava sempre di coprirsi bene. Principalmente, non voleva perdere anche lui come era successo con il gemello del ragazzo: una febbre lo aveva portato via da bambino e tutto ciò che era rimasto alla grande casata era lui, solo Simone.
Strinse il laccio del mantello e si tirò su il cappuccio, sistemandolo bene ed uscì dalla stanza.
L'ampia scalinata nascondeva male il suono dei suoi passi sulla pietra, ma le uniche orecchie che potevano sentirlo erano al suo servizio, nel bene e nel male, quindi si affrettò e l'unica deviazione che si concesse furono le cucine. Dovette abbassare la testa per entrare nell'ambiente ampio, ma spoglio; l'unica persona presente era Anita, che si occupava di rassettare gran parte del palazzo signorile ed era forse l'unica a poter avere accesso anche alle loro stanze private.
"Non ditemi che dovrò coprire di nuovo i vostri misfatti, ve ne prego"
La donna abbandonò come rassegnata il canovaccio che stringeva in mano sul piano della cucina, vicino al forno; lo sguardo che riservò a Simone era carico d'ansia malcelata e aspettativa. Il ragazzo, però, vi lesse una dolcezza che in ogni caso rivelava l'essere madre di qualcuno.
Anita conosceva la casata da moltissimi anni, c'era persino quando Jacopo se n'era andato ed era rimasta al loro servizio da allora, dopo essere andata via da Roma al ricerca di una vita migliore per lei e suo figlio. Diceva sempre che loro non erano come le altre famiglie, che erano speciali e fin troppo umani per quella società: quell'ultimo commento lo riservava spesso proprio a Simone.
"Vi giuro che la prossima volta non dovrete coprirmi", Simone giunse le mani come a simulare una preghiera e guardò la donna negli occhi: sapeva bene come farla vacillare, dopo tutti quegli anni.
Anita sospirò, "Va bene, ma davvero non potrò più farlo. I vostri genitori non sarebbero contenti di sapere che regalate cibo in giro, lo sapete"
Afferrò un piccolo cestino intrecciato da un ripiano e cominciò a riempirlo di tutto ciò che poteva passare inosservato: mele, pezzi di pane, arrosto avanzato ed anche qualche litro di latte. Si premurò di coprire il tutto col canovaccio che prima stringeva tra le mani e lo fece scivolare sul ripiano, di fronte a Simone con ancora il cappuccio calato sui ricci scuri.
"Mi dareste anche un pezzo di quella torta di mele che avete cucinato per pranzo? Era buonissima e voglio portarne un po' a Caterina"
Anita gli sorrise intenerita e si affrettò a tagliare un generoso pezzo di dolce, prima di coprirlo di nuovo con il canovaccio.
"Mi ricordate tanto quel disgraziato di mio figlio. Siete tanto buono, sapete. Spero solo che questo vostro buon cuore vi porti ogni bene nella vita, ragazzo mio."
Simone le sorrise. Sapeva che Anita avesse un figlio, ma non lo aveva mai incontrato, sapeva solo che soltanto recentemente avesse messo la testa apposto, andando a bottega da qualcuno.
Aveva visto spesso Anita piangere in qualche angolo del palazzo, e solo nell'ultimo periodo aveva smesso: in quei giorni sorrideva di più e quel piccolo solco tra le sopracciglia che le dava un'aria corrucciata si era disteso.
Simone afferrò il cestino, lo assicurò sotto il tessuto del mantello e, con un saluto ad Anita, uscì dal palazzo.
L'aria era fresca quel giorno, il fornaio poco più avanti aveva esposto le ultime infornate, riempiendo l'aria di un profumo delizioso.
Con la coda dell'occhio scorse una piccola figura alta poco più di un metro e venti, che sgambettava oltre l'angolo di un vicolo.
Il ragazzo si calò di più il cappuccio sulla testa e si avviò in quella direzione.
"Caterina!"
La sua voce sussurrata si perse nell'aria tersa.
"Caterina!", chiamò di nuovo.
Qualche secondo più tardi, una testolina ricoperta di lisci capelli biondi fece capolino dal vicolo che aveva precendetemente imboccato. La vista di quella spruzzata di lentiggini sul piccolo nasino arricciato fece stringere il cuore di Simone, affogato in tutto quell'affetto incondizionato.
"Caterina, ti stavo chiamando!" la ammonì, con un sorriso affettuoso.
La piccola gli sorrise, ampiamente e Simone notò che le era probabilmente caduto un altro dentino, perché la finestrella nel suo sorriso la rendeva ancora più adorabile.
"Simone! Che bello che sei venuto oggi, ora sì che è un bel giorno!"
Caterina gli si lanciò contro e lo strinse forte, quasi schiacciando il cestino che Simone teneva ancora celato sotto al mantello.
"Guarda cosa ti ho portato"
Scostò il canovaccio e, alla vista della torta di mele e uvetta, gli occhi di Caterina divennero enormi.
"È la torta della Signora Buona?"
Simone ridacchiò e le scompigliò un po' capelli biondissimi.
"Sì, è proprio quella. Dov'è la mamma?"
Caterina battè le mani, contentissima, dopodiché afferrò le mano candida del ragazzo e se lo trascinò dietro.
"Mamma sta a casa, che oggi Lino ha fatto cadere tutto il latte e si è arrabbiata tanto"
In poco arrivarono alla piccola casetta pericolante, la porta in legno era scheggiata e già socchiusa.
"Ma lo sapeva, la mamma, che tu eri in giro?"
Caterina lo guardò di nuovo con quei due occhi grandissimi e ridacchiò, colpevole.
"M'aveva detto di dare il bicchime alle galline, ma mica m'aveva detto di rientrare subito, dopo"
Simone sospirò e scosse la testa, ma nonostante questo, le accarezzò di nuovo i capelli.
Spinse l'uscio di legno e "Chicca?" chiamò.
Caterina lo spostò di lato ed entrò come un tornaro in casa, chiamando a gran voce la madre.
"Caterina, ma che c'è?"
Chicca aveva una voce davvero stanca e ancor di più lo era il suo viso, con due occhiaie marcate e le guance un po' scavate. Nonostante questo, era bellissima sempre. I capelli erano liscissimi come quelli della figlia e li teneva legati in una piccola crocchia; in casa si rifiutava di indossare la crinolina che invece le copriva la testa in pubblico e aveva due occhi grandi e di solito la bocca era sempre curvata in un sorriso.
"Simone? Ma che ci fate qua?"
Le guance di Simone si colorarono subito di rosso, mentre le sguardo si spostava al pavimento in legno con le assi sollevate in alcuni punti.
Forse aveva scelto il momento meno opportuno per presentarsi, ed effettivamente non ci aveva pensato molto.
"Scusatemi, posso passare domani, volevo solo lasciarvi questo"
Scostò il mantello e mostrò il cestino, mentre Caterina continuava a saltellargli intorno, canticchiando una filastrocca per bambini.
"Ma no, ma venite! Sedetevi, sedetevi, che vi prendo un po' di vino"
La casa di Chicca era molto umile e di solito si occupava lei di tutto, perché Matteo, suo marito, era spesso nelle campagne, alle fiere, a vendere i prodotti dei loro animali.
Caterina riprese la mano di Simone e lo portò alla piccola cucina, dove sul tavolo di legno un po' traballante stava una brocca di rame riempita di bellissimi fiori gialli.
Simone li guardò e ci passò sopra i polpastrelli, leggero.
"Ti piacciono? Li ho raccolti per la mamma, perché son belli come lei"
Il ragazzo sorrise intenerito a Caterina, che intanto si affrettava a liberare una sedia dal cesto con la biancheria per consentirgli di accomodarsi.
"Poi un giorno li regali anche tu a me quando ci sposiamo, Simone?"
Era da quando lo aveva visto per la prima volta, che Caterina chiamava Simone 'il mio principe' e si era convinta che un giorno si sarebbero sposati e lui l'avrebbe portata a vivere in un palazzo bellissimo.
"Ma certo", le rispose lui con un sorriso.
Ogni volta, Simone le sorrideva e le diceva che un giorno avrebbe trovato un principe fatto apposta per lei, ma lei non demorderva. Intanto, Simone si adoperava per farle avere il meglio, nelle sue possibilità. Le aveva anche insegnato a leggere qualche parola, e a Chicca aveva anche insegnato a scriverne qualcuna. Era un privilegio che davvero pochi avevano, e infatti Chicca aveva interrotto presto quelle lezioni improvvisate perché "Vi ringrazio tanto, davvero, ma io non ho proprio tempo e anche Caterina bisogna che m'aiuti"
Da quel momento, Simone si limitava a leggere qualcosa a Caterina quando ne avevano il modo, e portava a loro e ai vicini tutto il cibo che riusciva a raccattare dalle cucine. Aveva anche portato ai bambini tutti i giochi di quando lui e Jacopo erano piccoli e infatti, Caterina si portava ovunque una vecchia bambola di pezza, che si rovinava ogni giorno di più, ma era pur sempre un regalo del suo principe e quindi non poteva lasciarla incustodita.
Chicca tornò in cucina, con una brocca e qualche bicchiere di coccio.
"Non vi dovete disturbare per noi tutte le volte, lo sapete"
Si sedette davanti a lui, le ossa già stanche nonostante la giovanissima età.
Caterina si era sistemata accanto a lui e stava cullando la sua bambola, canticchiando sottovoce la stessa filastrocca di prima. Simone le riservò di nuovo una carezza.
"Non mi do disturbo, è davvero il minimo che possa fare"
Allungò il cestino fino alle mani di Chicca e lei gli riservò uno sguardo talmente grato che il cuore di Simone si sciolse di nuovo.
"Ho anche l'infuso per Giuditta, il medico dice di farglielo bere alla mattina e alla sera"
Dalla tasca dei calzoni estrasse un sacchetto contenente delle erbe secche e vide gli occhi di Chicca illuminarsi.
Quell'infuso di valeriana e iperico gli era costato 12 fiorini, ma erano tutti ripagati da Chicca che lo prendeva con mani tremanti e gli occhi brillanti.
"Caterina, vai a portarlo a Sara che così glielo da stasera a Giuditta, vai! E chiama anche gli altri bambini che Simone vi ha portato il dolce, sbrigati"
Caterina scattò come una molla e, non prima di aver riservato una carezza alla mano di Simone, si avviò svelta nei vicoli in cui lui poco prima l'aveva ritrovata.
Solo a quel punto, Simone notò gli occhi lucidi di Chicca.
"Che bella cosa, avete fatto, davvero. Pensavamo di non poter fare più nulla per Giuditta, la febbre non scende da tre giorni."
Simone deglutì.
"Spero starà meglio, poi me lo fai sapere, va bene? Anche se vi serve qualcos altro"
Chicca gli sorrise e gli strinse una mano sul tavolo.
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Anima Mea
Fanfiction1557 - Simone è figlio di un'importante casata fiorentina; Manuel va a bottega da uno dei più geniali artisti del tempo. Si incontreranno e tutto acquisirà un nuovo senso. La storia prende spunto da un Tweet. Non l'ho mai ritrovato.