Passarono sette anni da quella notte e, il 18 febbraio del 1564, il grande Michelangelo Buonarroti esalò il suo ultimo respiro nella Roma che lo aveva ospitato negli ultimi anni di vita. La sua salma venne trasportata a Firenze dal nipote, Lionardo, e lì fu seppellito, sotto quel cielo terso che l'aveva visto giovane e pieno di idee.
Manuel lo venne a sapere perché Alessandro gli aveva inviato una missiva fino alle campagne napoletane, dove lui e Simone si erano stanziati dopo tanto vagabondare.
Inizialmente, cinque anni prima, si erano fermati in città perché Manuel aveva ricevuto una commissione che era sembrata una manna dal cielo: la decorazione dell'altare della chiesa di Sant'Anna dei Lombardi. Fece un lavoro talmente raffinato, da conquistare cuore e monete di quei committenti che erano tanto diversi dai fiorentini, ma solo all'apparenza. Anzi, quasi si sentirono a casa, perché nel 1559 a Napoli, c'era tanto anche di Firenze e quindi non fu difficile ambientarsi.
Dopo circa un anno di stanzette luride in luride taverne e qualche rifugio di fortuna, avevano trovato una fattoria, fuori città che, con l'introito di Manuel, avevano potuto permettersi. Erano pochi quelli che avevano notato che quei due uomini venuti dal nord vivessero effettivamente insieme, probabilmente complice anche la casa isolata che consentiva di essere fuori dalle chiacchiere cittadine. Alcuni addirittura pensavamo che fossero fratelli, amici e chissà quante altre storie bislacche. Per quanto poi, a qualcuno che l'aveva notato potesse sembrare bizzarro, nessuno aveva mosso obiezioni. Infondo, avevano portato entrambi del bene alla città.
Ché se Manuel continuava a dedicarsi alla scultura in quella che era stata la stalla della fattoria, Simone aveva messo su un piccolo orto di piante officinali al lato della loro capannella e le vendeva al mercato quasi ogni giorno, prodigandosi anche nell'aiutare i più bisognosi di cure.
Gli abitanti lo avevano amato fin da subito, le anziane del borgo gli pizzicavano sempre le guance e, fin dai primi giorni, alcune di loro gli avevano fatto avere pane e formaggio a sufficienza per sopravvivere fin quando non si fossero sistemati.
Simone cercava ogni giorno di ricambiare quelle gentilezze, e ogni giorno Manuel si innamorava di quel cuore tanto puro che lo aveva attratto fin dal primo istante.
Quando arrivò la lettera di Alessandro, Manuel era alla cava, stava scegliendo un blocco di marmo per un San Francesco che gli avevano commissionato ed era concentrato, perché i francescani di soldi ne avevano pochi, ma comunque non voleva fargli un lavoro scadente, visto che qualche anno prima avevano dato asilo sia a lui che a Simone. Stava ponderando quanto gli sarebbe costato donare direttamente la statua al convento, quando sentì il trotto di un cavallo alle sue spalle.
Vide un giovane vestito alla maniera fiorentina chiedere ad un manovale proprio di un certo Manuel Ferro, che gli avevano detto avrebbe trovato lì.
L'uomo, toltosi la cuffietta, lo indicò confuso e Manuel guardò il giovane avvicinarsi.
"Questa ve la manda mastro Alessandro Ghibelli", esordì il giovane, neanche degnandosi di scendere da cavallo.
L'animale nitrì, irritato, mentre Manuel si schermava con una mano gli occhi dai deboli raggi dell'ultimo sole invernale ed afferrava la missiva. La guardò un po', ma prima che potesse aprire bocca, il messaggero aveva già schioccato le redini, ripartendo al trotto verso nord.
Mastro Alessandro Ghibelli.
Manuel si rigirò quell'appellativo sulla lingua, come fosse strano appellare l'amico in quel modo. Soprattutto, se avevano iniziato a chiamarlo mastro, potevano esserci solo due spiegazioni e Manuel sentiva di sapere già quale delle due corrispondesse a verità, anche senza leggere la missiva.Quando ritornò alla fattoria, intravide Simone già dal fondo della stradina sterrata che portava a casa loro.
Stava appoggiato alla porta fatiscente e si stringeva in una camicia un po' logora e fin troppo leggera per il freddo di febbraio.
Sette anni prima, la prima cosa che Simone aveva fatto una volta uscito da Firenze, era stata vendere la sua giubba damascata. Quella blu con le perle.
A onor del vero, l'aveva data via per quattro soldi rispetto a ciò che valeva, ma il sorriso che gli si aprì sul volto non appena si sciolse la sopravveste, investì Manuel di tanto orgoglio, quasi da farlo piangere. E non aveva mai visto Simone tanto libero come lo era stato dopo essersi tolto quel vestito. Volteggiava come se dovesse volare e sorrideva come un bambino. Faceva caldo, quindi si era allentato i legacci della camicia e, una volta assicuratosi che il mercante che lo aveva anche appellato come 'folle' si fosse allontanato, aveva trascinato Manuel in un ballo sconclusionato, che terminò con loro che si chiudevano nella prima taverna a disposizione e si amavano fino al mattino.
Simone si staccò dallo stipite e fece qualche passo in direzione dell'altro.
"Cominciavo a preoccuparmi, anima mia. Dov'eri?"
Era qualche anno, che Simone aveva acquisito quell'abitudine, quella di chiamarlo anima mia, e Manuel ogni volta bloccava il respiro e si godeva quelle due piccole parole pronunciate dalle uniche labbra che avrebbe mai venerato, sentendosi importante, un re, al solo sentirle.
Gli riservò un sorriso di sbieco e legò Giasone, il loro cavallo, all'abbeveratoio.
"Alla cava, amore mio. Mi è arrivata questa."
Gli porse la pergamena che aveva un po' spiegazzato durante il viaggio di ritorno e notò Simone iniziare a leggere aggrottando leggermente le sopracciglia.
Quando guardò di nuovo Manuel, aveva gli occhi tristi e il maggiore lo spinse dentro casa, chiudendo l'uscio alle loro spalle.
In casa c'era un forte odore di erbe aromatiche, il fuoco scoppiettava e sul tavolo di legno c'era lo stufato coperto da un paglierino.
Era piccola, la loro casa: le pietre che reggevano le mura trattenevano bene il calore e il pavimento di legno ci tenevano a tenerlo sempre ben pulito, per quanto quello della stanza in cui lavorava Manuel, invece, fosse un disastro. Le erbe di Simone essiccavano appese in ogni angolo e spesso Manuel ci si impigliava con i capelli, scatenando l'ilarità dell'altro. L'ingresso corrispondeva alla cucina piccola, ma ordinata e ciò che li aveva convinti era stato proprio il grande camino di pietra, col ripiano di terracotta. Accanto avevano sistemato su una mensola di legno massiccio i pochi libri che Simone aveva tenuto con sé, uno di anatomia umana che il ragazzo aveva regalato all'altro qualche anno prima e alcuni appunti del Buonarroti che Manuel custodiva molto gelosamente. Davanti al camino vi era una sedia a dondolo un po' sgangherata, che già da due anni Manuel ripeteva che l'avrebbe sistemata. Il tavolo di legno l'avevano recuperato da un anziano del borgo, che lo stava gettando via; qualche asse era un po' sfalsata, ma bastava per quattro e di solito loro erano solo in due.
In fondo alla sala c'era una piccola porticina, che scricchiolava in modo sinistro di notte con il vento, ma portava alla loro stanza: il loro letto e qualche candela, con di fronte un mobile per i vestiti, affiancato dalla bacinella di ceramica un po' scheggiata con cui si lavavano il viso al mattino.
Non avevano specchi e Simone se ne lamentava, diceva che così i suoi capelli sarebbero rimasti per sempre indomabili, ma Manuel passava subito le dita tra i ricci corvini e lo rassicurava con "Te lo dico io, che sei bellissimo, non hai bisogno di altro"; di solito Simone arrossiva e dimenticava per un attimo la questione dello specchio.
Appena si chiusero l'uscio alle spalle, un micio rossiccio andò a strofinarsi sulle gambe di Manuel, per poi rannicchiarsi vicino al fuoco, dove si metteva di solito. Avevano preso quel gattino perché teneva lontani i topi e in cambio chiedeva soltanto qualche grattino ogni tanto.
Simone gli posò una mano sulla guancia dell'altro e lo guardò negli occhi scrutandone le emozioni.
"Mi dispiace per il Buonarroti"
Manuel deglutì il nodo alla gola che lo stava tormentando ed abbassò lo sguardo.
"Non ho potuto nemmeno salutarlo."
Simone gli si fece più vicino e gli posò un bacio leggero all'angolo delle labbra, a cui lui rispose stringendogli il fianco destro, in un gesto tanto naturale quanto familiare.
"Lui sapeva che non lo stavi abbandonando, Manuel. E sapeva quanto gli sei grato."
Seguì un piccolo silenzio, durante il quale Simone ispezionò di nuovo la lettera.
"E quando partiamo?"
Manuel sgranò leggermente gli occhi, capendo subito a cosa il corvino si stesse riferendo.
Alessandro aveva messo nella lettera una postilla: Michelangelo aveva lasciato proprio a lui una piccola eredità e in quella era compreso un lavoro, uno solo, da portare a termine.
Scosse la testa, mentre si avvicinava al tavolo, stanco.
"No, Simò, non possiamo andare a Firenze."
Simone aggrottò le sopracciglia e battè un piede a terra, piccato.
"Perché?"
Manuel lo guardò chiedendosi se non avesse inalato troppi chiodi di garofano pestandoli nel mortaio, quel giorno.
"Simone, ma se dovessero riconoscerti? Ti ricordo che sei venuto meno al tuo obbligo matrimoniale e sei scappato dalla città, pur essendo il figlio di Dante Balestra!"
Il castano si lasciò andare sulla seggiola vicino al tavolo, cercando di muovere il collo lentamente, nel vano tentativo di sciogliere la tensione sulle spalle.
Non appena lo notò, Simone gli si fece vicino e cominciò a carezzare quelle stesse spalle, rassicurante, protettivo.
"Mi nasconderò e non mi vedrà nessuno. Tu devi andarci, sono le ultime parole del tuo maestro, Manuel. E poi, nessuno si immagina che siamo scappati insieme, di certo non mi cercheranno."
Manuel alzò la testa per guardare l'altro negli occhi; aveva l'espressione preoccupata di quando sapeva che si sarebbero messi nei guai. Tuttavia, Simone continuò a guardarlo con quegli occhi enormi, incoraggianti, e pensò che forse, del suo Simone, poteva anche fidarsi.
"Va bene. Portiamo alla fine del mese, però. Devo sistemare il lavoro con i francescani."
Simone gli sorrise vittorioso e si chinò a schioccargli un bacio sulle labbra a cui Manuel non rinnegò un sorriso spontaneo.
"Bene, così ho il tempo di sistemare e vendere le ultime erbe del raccolto. Ora mangia che lo sai che il mio stufato, da freddo, non è nemmeno masticabile."
Il maggiore sbuffò una risata e si rese conto che, da quando la sua vita era confluita in quella di Simone, il buonumore aveva riempito le sue giornate, anche le peggiori.
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Anima Mea
Fanfiction1557 - Simone è figlio di un'importante casata fiorentina; Manuel va a bottega da uno dei più geniali artisti del tempo. Si incontreranno e tutto acquisirà un nuovo senso. La storia prende spunto da un Tweet. Non l'ho mai ritrovato.