A vederlo, sembrava fatto di ferro e tempesta, un pericolo annunciato, il tipo d'uomo da cui ti dicono di stare alla larga. Il suo sguardo era una lama affilata, la voce un rintocco di minaccia. Non sorrideva mai per davvero, non mostrava nulla che...
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Ciao a tutti, come state? Spero bene. Questi capitolo sarà un po' corto perché è "di passaggio". Prometto che i prossimi saranno più lunghi e carichi. In ogni caso, vi sta piacendo la storia? Mi manca parlare con voi.
Le risate di Gisela mi riempirono le orecchie mentre piantavo i piedi a terra e spingevo con tutta la forza che avevo. Alcune ciocche dei suoi capelli dorati mi sfiorarono il viso, e per un attimo chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal vento che ci avvolgeva.
«Mi sento leggera come una farfalla.»
La sua voce scivolò dolce nelle mie orecchie e mi ritrovai a sorridere, aprendo gli occhi per osservare la luce del sole che filtrava tra le foglie, disegnando ombre e bagliori sul terreno. Le nuvole si muovevano lente, come coralli sospesi in un mare invisibile. L'aria profumava di terra bagnata e di pioggia, mentre il cinguettio degli uccelli si mescolava al fruscio degli alberi mossi dalla brezza.
Strinsi le dita attorno al seggiolino di tessuto dell'altalena a nido. Il vento mi accarezzava il viso, e per un attimo mi sembrò di essere di nuovo un bambino, sdraiato a testa in giù su quell'altalena costruita dagli uomini del villaggio. Il sole a pizzicarmi la pelle, i capelli che pendevano nel vuoto, la strana sensazione di leggerezza nel petto. Guardare il mondo al contrario mi faceva sentire libero. Mi faceva immaginare una realtà diversa. Una realtà in cui giocavo con altri bambini. Una realtà in cui mia madre poteva parlare con chiunque senza abbassare lo sguardo o sussurrare parole spezzate.
Nella mia testa costruivo castelli di sabbia. Ci vivevo per pochi istanti, prima che il vento li portasse via. E il vento arrivava sempre. Arrivava quando mia madre mi chiamava, quando dovevo rimettere la testa dritta e ricordarmi chi ero davvero.
Col tempo avevo smesso di andarci.
Mamma mi diceva di concedermi attimi di spensieratezza, ma le rispondevo che non mi piaceva più quell'altalena. Era una bugia. La adoravo. Adoravo sentirmi, anche solo per qualche minuto, un bambino normale. Ma la caduta era troppo dolorosa. Ogni volta.
Perché se non lasci che la speranza cresca, il cuore non prende fuoco. E se non c'è fiamma, non ti scotti.
«È bellissimo.»
Gisela si voltò verso di me, gli occhi brillanti di gioia, e sentii qualcosa scaldarmi il petto. Lei non aveva bisogno di castelli di sabbia. Il suo mondo era solido, sicuro. Ed ero deciso a proteggerlo con tutto me stesso.
Perché per le bambine era più semplice. Loro potevano giocare, ridere, vivere la loro infanzia senza pesi sulle spalle. Noi maschi no. Noi dovevamo imparare a combattere. A cinque anni sapevo già caricare una pistola.