CAPITOLO UNO

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"𝘼𝙚𝙫𝙤 𝙧𝙖𝙧𝙞𝙨𝙨𝙞𝙢𝙖 𝙣𝙤𝙨𝙩𝙧𝙤 𝙨𝙞𝙢𝙥𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖𝙨

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"𝘼𝙚𝙫𝙤 𝙧𝙖𝙧𝙞𝙨𝙨𝙞𝙢𝙖 𝙣𝙤𝙨𝙩𝙧𝙤 𝙨𝙞𝙢𝙥𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖𝙨."
"𝘓𝘢 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘭𝘪𝘤𝘪𝘵à, 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘳𝘢𝘳𝘪𝘴𝘴𝘪𝘮𝘢 𝘢𝘪 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘪 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘪"
(Ovidio, Ars Amatoria)


L'odore del legno stantio mi inebriò le narici, mentre socchiudevo le palpebre e permettevo alla luce di insinuarsi tra le mie ciglia. Come un bambino con un cane amichevole, questa mi carezzò le iridi in maniera delicata e mi spinse ad ampliare il mio raggio visivo, facendomi entrare in contatto con una realtà cruda.

Spesso nutrivo la speranza di aprire gli occhi e trovarmi immerso in una vita dal volto diverso: erede di un avvocato di successo, principe di un idilliaco regno montano o possidente di una tenuta maestosa. Ma la realtà era un cantore crudele e, ogni mattina, mi risvegliavo nel grigiore della mia esistenza. Le pareti sbiadite, il soffitto scrostato, i mobili graffiati e le tende logore: un dipinto di decadenza e usura. La speranza di svegliarmi in un'altra vita, una vita decente, era ormai un fottuto sogno irraggiungibile.

Stronfiai rumorosamente dopo aver preso un respiro profondo e, con un unico e agile movimento, mi sollevai dal materasso logoro e lacerato che fungeva da mio giaciglio per la notte. Tesi le braccia verso l'alto, allungando la schiena ed emettendo una serie di scricchiolii poco rassicuranti. Forse quel letto non era poi così comodo, in fondo.

Lasciai scivolare le dita sul mio addome, nudo di indumenti ma pennellato di caligine e terra, per poi infilare la canotta che giaceva sul pavimento, annusandola distrattamente per controllare che non puzzasse troppo.

Chi cazzo voglio impressionare? pensai, scrollando le spalle.

Con la mente tendevo a danzare nell'eco di una suite d'albergo stellato, cercando di eludere la consapevolezza che la cucina non fosse altro che un angolo distante un metro e mezzo dal mio materasso.

«Buongiorno mamma, hai dormito bene?» Borbottai con la bocca impastata a causa del sonno, mentre avvolgevo la donna con le braccia e le scoccavo un bacio leggero sui capelli, ormai candidi come cristalli di neve.

«Benissimo, tesoro» incespicò nel suo carente italiano. Nativa della Macedonia, il cuore della nostra società, aveva sempre e solo parlato il nostro dialetto, il romanì. Non aveva mai avuto il tempo di apprendere un nuovo idioma, essendo costretta a cambiare casa continuamente. Ma io l'avevo presa come una sfida e lo avevo imparato in maniera abbastanza celere, impartendo lezioni di tanto in tanto anche a lei. lei. In fondo, era il minimo che potessi fare per lei. Lei che aveva rinunciato a tutto per darmi quel poco.

Ma io non potevo darle altro che disastri. E questa consapevolezza mi faceva incazzare, ogni maledetto giorno.

Mi separai dall'abbraccio e volsi lo sguardo verso la cucina, un fornello logoro e un anfratto custode di cibo preconfezionato. Nessuna peculiarità spiccava, eccetto l'odore di decadenza che permeava l'aria. Non sapevo se derivasse dalla muffa che decorava le pareti o dai rubinetti attraversati da acqua di fogna, ma su quel pezzo di ferraglia avevo visto la luce e ci ero affezionato. I miei primi passi risuonavano ancora nel piccolo abitacolo. Il mio primo respiro non avvenne tra le pareti di un ospedale, bensì nella culla errante di quella roulotte nel corso di una fuga, tessuta tra strade a zigzag per sfuggire alla polizia. Mamma mi aveva raccontato molte volte di quanto papà fosse in tensione quel giorno, non tanto per l'inseguimento ma per il suo pargolo che tardava a venire.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 5 days ago ⏰

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