06-Sacramento

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06.

Hotel, 11.30 p.m.

Ash Clark

Stringeva il cornicione esterno del tetto con l'unica mano con cui riusciva a reggersi. Quella presa era l'unica cosa a tenerla lontana dalla morte. Avrei potuto spingerla giù, ma non avevo urgenza: assaporare lentamente i minuti che separavano quel momento dalla sua fine era molto più soddisfacente. Già immaginavo i titoli dei giornali e delle riviste dell'indomani, e tutti i social invasi dalla notizia: "Ivory Smith, incidente o suicidio: la giovane star della musica muore tragicamente".
"La giovane cantante di fama mondiale Ivory Smith muore precipitando dal quarantesimo piano: sarà un'altra delle giovani a cui la fama ha tolto la felicità?". Decine, centinaia, migliaia di testate giornalistiche mondiali a rendere la sua morte più famosa di quanto non lo fosse già la sua vita. Certo, mi sarebbe toccato avvisare personalmente i familiari, ma avrei delegato il compito tranquillamente a qualcun altro. Al momento, l'unica cosa su cui riuscivo a mantenere alta l'attenzione era il suo viso. Gli occhi stretti e chiusi, la traccia delle lacrime sul suo viso, i capelli bagnati mossi dal vento, le gambe a penzoloni nel vuoto. Dal primo momento in cui l'avevo vista, sul bordo di quella piscina, avevo provato lo strano desiderio di vederla sparire.

L'unico motivo per cui mi trovavo a capo di quella casa discografica era l'artista più importante al suo interno: Ivory Smith. L'avevo sentita nominare dalla prima volta che avevo messo piede dentro quell'edificio. Qualunque cosa mi venisse messa sotto gli occhi, qualunque documento, carta da firmare, riguardava lei e i suoi progetti. Sembrava quasi che l'intero mondo girasse attorno a quella ragazzina. L'unica cosa che mi interessava, però, era lo spostamento della droga tramite i suoi tour senza che venisse scoperta. Era questo il motivo per cui mi trovavo lì e non me ne sarei andato. Questi erano gli ordini. Ma non era riuscita a farsi gli affari suoi, andando ben oltre ciò che le era permesso vedere. Mi sarei messo nei guai, enormi guai: eliminare l'unico motivo per cui l'intera organizzazione si era mossa per mettere me a capo della Young, sarebbe stato estremamente rischioso. E non mi importava. Le avevo promesso di fargliela pagare e non sarei mai venuto meno ad una parola data. Perché rispettavo sempre le regole. Quelle dettate da me, almeno.

Aveva iniziato a studiarmi dalla prima volta che mi aveva visto, e mi innervosiva l'idea che qualcuno provasse ad andare oltre, a cercare qualcosa. Avevo sottovalutato la sua forza di reazione: aveva paura, ma non si arrendeva. Mi stuzzicava, faceva domande come se ogni informazione in più non l'avrebbe condotta sempre più verso la sua distruzione. Era coraggiosa. Avevo deciso di giocare con lei, e lei, di tutta risposta, aveva deciso che mi avrebbe fatto arrivare al limite della pazienza. Mi aveva puntato i suoi occhi addosso e mi aveva chiesto se, nel caso in cui fosse mai caduta, l'avrei presa. Un attimo dopo, mi aveva chiesto di buttarla giù, consapevole del rischio, consapevole che le probabilità che io lo facessi fossero alte. Era il suo modo di dominare, di testare il campo. Riusciva a passare dall'essere ingenua all'ostentare sicurezza in maniera disarmante. I suoi occhi riuscivano ad essere gli occhi di una bambina che scopriva il vaso di pandora e, un attimo dopo, a trasformarsi negli occhi di chi il male, lì dentro, ce l'aveva messo con le proprie mani. Dovevo ammetterlo, questo lato della sua personalità aveva qualcosa di intrigante e, forse proprio per questo, non lo tolleravo. O forse non tolleravo quella parvenza di familiarità che scorgevo nei suoi occhi ogni volta che incontravano i miei.

Posai lo sguardo sulla sua mano stretta al cornicione e notai come, lentamente, stesse scivolando.
<<Tranquilla ragazzina, non sarà per nulla doloroso.>>
Il suo sguardo si posò violento su di me, colmo di fiamme. Aveva paura, sì, ma la rabbia superava di gran lunga qualsiasi altro sentimento. Mi odiava più di ogni altra persona sulla faccia della terra e, probabilmente, avrebbe preferito che ci fossi io lì. Eppure la vedevo la testardaggine nei suoi occhi, vedevo il modo in cui, ancora, provava a sfidarmi. Sembrava quasi che anche il vento, da un momento all'altro, si sarebbe inchinato a lei.
<<Sei spregevole>> mi disse a denti stretti, con rabbia. O forse odio.
<<Lo so>> risi.
Presi una sigaretta dalla tasca dei miei pantaloni e la misi in bocca, poi mi sedetti sul muretto esattamente come lei poco prima.
<<No>> rispose con fatica.
Mi sporsi leggermente a guardarla, sorpreso della forza che stesse impiegando fino all'ultimo secondo per non scivolare giù.
<<Io non ti vorrei vedere qui. Io non vorrei vedere nessuno qui. Nessun essere sano di mente lascerebbe in questa situazione qualcuno. Nessuno tranne te. Tu sei spregevole>> ringhiò.
La sicurezza nella sua voce la rendeva quasi ammirevole.
Guardai la strada sotto lei, notando come la confusione si facesse sempre meno compatta. La gente iniziava a tornare a casa e le auto che riuscivo a scorgere da qui erano quasi tutti taxi. Qualcuno di loro da lì a poco avrebbe assistito ad una scena che non avrebbe mai dimenticato, diventando testimone di una storia che sarebbe stata raccontata per anni. Io sarei andato via portando con me tutti i membri del suo team, assegnandoli a qualche altro artista, e avrei cercato un nuovo modo di far arrivare la droga in giro per il mondo. La mia posizione mi avrebbe reso tutto molto più facile. Ognuno avrebbe avuto una nuova vita e una storia da lasciarsi alle spalle. Ognuno si sarebbe dato una spiegazione diversa e nessuno avrebbe mai scoperto la verità dietro la sua morte. Per quanto mi riguardava, quella storia poteva benissimo chiudersi lì.
Mi alzai dal muretto e la guardai un'ultima volta. Stringeva i denti, arrivata quasi allo stremo delle forze.
<<È stato un piacere aver saldato i conti con te, ragazzina.>>
Le diedi le spalle e iniziai a camminare verso l'ascensore al di là della piscina. Il fumo chiaro della sigaretta che avevo fra le labbra si distingueva nettamente nella notte, così come il suo odore aromatizzato alla ciliegia. Alzai lo sguardo verso l'alto mentre camminavo, notando come il cielo fosse coperto da una foschia biancastra che non rendeva visibile neanche una stella. L'aria era umida, segno di un probabile acquazzone in arrivo. La pioggia era l'unica cosa che riuscivo a reputare poetica nel cielo, l'unica cosa che mi sembrava avvicinarsi un minimo alla sofferenza umana. Poi, come se i miei pensieri l'avessero richiamata, sentii arrivare una goccia sul mio polso, facendomi abbassare lo sguardo: Can I love again?
Sentii una fitta allo stomaco come ogni volta che, per errore, finissi a guardare quella frase. Odiavo quel tatuaggio, ma non avevo potuto fare a meno di marchiarmelo addosso per coprire quella cicatrice. Era lì, alla portata di uno sguardo, ma lo evitavo come se quella parte della mia pelle non esistesse. Era l'unica ferita che non avrei mai ammesso di avere e l'unico dolore che non smettevo mai di provare. E la pioggia aveva deciso di prendersi gioco di me in quel modo.
Smisi di guardare la pioggia e proseguii verso l'ascensore. Il polso mi bruciava.
<<ASH!>>
La sua voce riecheggiò per tutto l'attico, rituonando alle mie orecchie svariate volte.
Non riuscii più a fare un passo avanti e il polso prese a bruciarmi di più. Restai come paralizzato. Aveva appena urlato il mio nome. Il nome dell'unica persona che voleva distruggerle la vita, lei l'aveva urlato come se, in realtà, fosse anche l'unica che l'avrebbe salvata.
Non avevo intenzione di vederla mai più, la volevo morta. Non mi era difficile, non provavo compassione e pena per nessuno. Non mi fregava assolutamente nulla della sua presenza su questo pianeta o meno. Non mi interessava di vederla precipitare da quaranta piani. Non era la prima celebrità a morire e non sarebbe stata l'ultima. Non era la prima persona a cui avevo fatto del male e non sarebbe stata l'ultima. Eppure, qualcosa nella mia testa, improvvisamente, mi impose di tornare indietro e salvarla. Non riuscivo a provare sollievo, non mi sentivo leggero. Più mi ripetevo che dovevo andar via e finire ciò che avevo iniziato, più qualcosa mi teneva i piedi incollati al suolo. Non stavo bene, sentivo il cuore pesante e la testa scoppiare. Un cocktail di sensazioni negative, opprimenti, stava prendendo posto nella mia mente, fino a passare per la mia gola e stringermi lo stomaco. Il fiato aveva iniziato a farsi pesante e quasi non riuscivo a respirare. Sentivo il petto stringersi tanto da far male. Cercavo di capire cosa mi stesse succedendo. Era un'emozione che non potevo accettare di provare, era...rimorso.
<<Porca puttana!>>
Serrai i denti.
Tirai un calcio ad una pila di sedie che avevo davanti e gridai di rabbia, poi mi girai e iniziai a correre verso il muretto. Gettai la sigaretta sul pavimento bagnato e mi affacciai immediatamente. Lanciai il braccio nel vuoto e l'afferrai.
L'afferrai proprio nel momento in cui la sua mano aveva ceduto.
La tirai su, la presi in braccio. Pesava quanto una piuma. Aveva perso conoscenza. Le spostai i capelli bagnati dal viso e la scossi leggermente per farla riprendere.
<<Non dirmi che sono tornato indietro per nulla, ragazzina>> sussurrai.
Mi tremavano le mani sul suo viso.
I suoi vestiti erano completamente bagnati, la pioggia cadeva sul suo viso e i suoi capelli già umidi prima, adesso gocciolavano. Andai verso l'ascensore con lei in braccio e premei il numero del nostro piano.
Me ne sarei pentito di sicuro.
Coscienza di merda. Fottutissima coscienza di merda.
Le misi una mano nella tasca della felpa per prendere la card della sua stanza, ma era completamente bagnata e dubitavo che avrebbe funzionato.
I leggings le lasciavano parte della caviglia nuda, facendomi notare la pelle d'oca causata dai brividi di freddo. La luce dell'ascensore mi permetteva di vederle meglio il viso. Osservai ogni suo tratto, lineamento. Aveva le ciglia incredibilmente lunghe e scure, proprio come i suoi capelli, che mi bagnavano la manica della felpa. La sua pelle era olivastra, il suo naso piccolo.
Salvare una ragazzina come fossi Superman, ridicolo.
Arrivati al nostro piano, fortunatamente non avvertii né rumori né vidi qualcuno in giro, ma andare in camera o restare in hotel non sarebbe stato per nulla sicuro. Ed avevo già fatto abbastanza cazzate. Sapevo benissimo dove portarla.
Sfilai fuori dalla mia tasca posteriore il portafoglio e la card al suo interno. Aprii la porta della mia camera, senza accendere la luce. Non lo facevo mai, la odiavo. Attraversai il salottino e andai nella mia stanza da letto. Della tipa, proprio come le avevo ordinato prima di lasciare la stanza, non c'era più neanche traccia.
Poggiai Ivory sul letto e presi qualcosa da farle indossare dal mio armadio. Le sfilai i vestiti bagnati e le misi subito i miei. Non avrei potuto portarla via di lì in quelle condizioni. Le vidi aprire per un attimo gli occhi e guardarmi, palesemente stordita. Istintivamente, le sorrisi.
<<Non potevi andartene così velocemente, ragazzina.>> 

Frantumi D'AvorioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora