01.
Febbraio 2021.
Hotel, 04:00 p.m.Ogni volta che arrivavo in un posto che non era casa, per quante volte ci fossi già stata, mi sentivo come se quella fosse la prima volta.
Sacramento era la quarta tappa del tour, ultima negli Stati Uniti, per poi andare alla volta dell'Europa. Avevo già tenuto un concerto lì durante il primo tour e ricordavo benissimo la sensazione: per me, così lontana da casa per la prima volta, Sacramento era un ritorno alla normalità. Non era come New York, Washington, Los Angeles, Philadephia, Chicago e quasi tutte le altre città degli Stati Uniti, piene di palazzi incredibilmente alti e illuminati. Sacramento mi ricordava Londra: forse perché attraversata dal fiume e collegata da una parte all'altra dal Tower Bridge, o forse era l'aspetto dei piccoli quartieri, o magari semplicemente la sensazione di tranquillità che mi dava. Fatto sta che averla vista quella mattina dal finestrino dell'aereo, nonostante fossero passati anni, mi aveva dato la stessa sensazione, e mi aveva subito fatto avvertire una certa leggerezza nel cuore. Leggerezza che non c'era più da quando Dalya mi aveva detto che avrei dovuto incontrare il presidente.
Eravamo a Sacramento dalle dieci di quella mattina. Una volta atterrati, avevamo subito raggiunto l'hotel in cui avremmo alloggiato per tre giorni, con partenza prevista la mattina del quarto. Al concerto mancavano ancora due giorni, mentre l'indomani mi avrebbe attesa un'intervista. Il giorno d'arrivo era sempre il giorno di riposo e sistemazione, motivo per cui non avevo impegni particolari, tralasciando l'incontro che avrei avuto quel pomeriggio e che non mi permetteva di stare davvero tranquilla e riposare. Non ero riuscita completamente a levarmelo dalla testa per più di cinque minuti durante tutto il giorno, e quasi non vedevo l'ora che arrivasse il momento per mettere fine a quelle sensazioni che mi martellavano lo stomaco. Probabilmente stavo solo esagerando per nulla ma, al solo pensiero del nuovo presidente, ogni singola parte del mio corpo non faceva altro che mandare segnali d'allarme senza che ne capissi il motivo. Ed io, delle mie sensazioni, mi fidavo parecchio.
L'hotel era lo stesso di quattro anni prima: un edificio di quaranta piani con piscina sull'attico, lo ricordavo bene. Non fu necessario andare alla scoperta del posto. Sapevo già come fossero fatte le stanze e conoscevo abbastanza bene il piano in cui era stato collocato tutto il mio team. Mi era stata per giunta riservata la stessa stanza della volta precedente, piano trentasei. Era talmente grande da poterci far stare una famiglia intera. Il salottino all'ingresso aveva un tavolo basso in vetro sopra un tappeto nero, un frigo minibar, la televisione a muro, e delle vetrate che riempivano tutta la parete frontale e regalavano una vista totale sullo skyline della città, incorniciate da tende sul grigio scuro. Nella stanza affianco c'era un letto a due piazze con la testiera nera in legno, e anche qui enormi vetrate con il medesimo panorama. Amavo quella vista e ricordavo benissimo tutti i tramonti che avevo osservato da lì, il cielo che cambiava sfumature, e il sole che spariva dietro i palazzi di Sacramento. Nulla a cui i miei occhi avrebbero potuto rinunciare.
Sistemai tutte le mie cose all'interno della stanza, riponendo nell'armadio esclusivamente scarpe e abiti più urgenti. Non ero solita disfare totalmente le valigie, lo ritenevo un po' inutile data la brevità della permanenza per ogni tappa. Rifarle da capo sarebbe stata davvero un'impresa. Dopodiché raggiunsi Dalya, che mi aveva proposto di pranzare insieme e guardare un film.
Ero strattonata sempre fra interviste, soundcheck, concerti, stilisti, e impegni vari che si moltiplicavano durante i tour, riducendo notevolmente il tempo che potevo dedicare a svaghi del genere. In quanto mia manager, Dalya era sempre con me ad occuparsi dell'organizzazione di qualcosa di nuovo. Le avevo detto più volte che se tutto questo un giorno le fosse risultato troppo pesante, avrebbe potuto prendere una strada diversa senza problemi, ma sembrava irremovibile sulla sua scelta, e dovevo ammettere che l'idea di saperla accanto mi dava tranquillità.
Mancavano due ore circa all'incontro che avrei evitato volentieri, se avessi potuto. Non mi era stato detto nulla al riguardo, soltanto che avrei incontrato il presidente nel bar dell'hotel: un luogo molto sofisticato in cui si entrava su tacchi vertiginosi e con una certa eleganza. E il mio modo di vestire, di sofisticato, aveva ben poco. E non avevo intenzione di cambiarlo esclusivamente per un incontro. Ero riuscita, tra un paio di pantaloni di pelle e un altro, degli stivaletti borchiati e le mie gonne punk, a creare il mio personaggio artistico. Mi andava bene così, lontana da qualsiasi altro stile che non mi appartenesse, da imitazioni già viste solo per seguire un mero senso stilistico. Mi interessava continuare ad essere Ivory, prima di essere una cantante, un'icona di moda, o qualunque altra cosa messa in piedi solo per piacere agli altri.
Feci scorrere dentro l'armadio le poche cose che avevo tirato fuori dalla valigia, senza trovare nulla che mi paresse il caso di indossare o che mi andasse a genio in quel momento. Aprii uno dei bagagli e scelsi un vestitino nero semplice, senza alcun tipo di decorazione, stretto sotto il seno e largo fino a poco più su delle ginocchia, e un paio di scarponcini. Andai in bagno, feci una doccia veloce, finii di prepararmi e buttai fuori un sospiro pesante, poi guardai di nuovo l'orologio: le cinque del pomeriggio. Da lì a breve sarebbe sicuramente venuta Dalya a chiamarmi, e l'imminente impegno mi precludeva già la possibilità di osservare il tramonto. Cosa che probabilmente si sarebbe ripetuta per i restanti giorni, dati gli eventi in programma. Mi dispiaceva non riuscire a trovare cinque minuti in tre giorni per osservare quello spettacolo. L'idea che dove ci fossi io ci fosse anche un tramonto da favola di cui non avrei potuto godere, mi pesava sempre.
<<Ivory, pronta?>> sentii la voce di Dalya da dietro la porta della mia stanza.
Rivolsi un ultimo sguardo al cielo che diventava sempre più buio e andai ad aprire.
<<Pronta!>>
Chiusi la porta alle mie spalle e, appena mi girai, trovai il suo sguardo addosso: c'era qualcosa che non andava.
<<Dalya, che succede?>>
<<Non posso accompagnarti all'incontro. Il management mi ha espressamente ordinato di starmene da parte. Mi hanno confermato che è un incontro di lavoro per conoscere gli artisti della Young Generation personalmente, dal momento che non è stato lui a firmare i vostri contratti>> spiegò.
Non ero una bambina, ma andare sola era un'idea che mi agitava di più. Avevo quella terrificante sensazione che non aveva smesso di percorrermi tutta la spina dorsale da quando avevo saputo dell'incontro, e che adesso sembrava essersi fermata sul mio petto, tanto da renderlo così pesante da non riuscire a stare in piedi. Non conoscevo ogni singolo artista legato alla Young, ma indubbiamente in sede erano presenti informazioni su ognuno di noi. Perfino su di me si trovavano notizie ovunque, mie interviste dappertutto. Quella fretta di vedermi, o vederci, continuava a risuonarmi strana.
<<Non fa nulla, non ti preoccupare. È solo un incontro, anche se non ne capisco il senso, o l'urgenza. In ogni caso, per soddisfare la mia curiosità, sapresti dirmi quanti artisti ha incontrato prima di me?>>
<<Nessuno>> affermò senza giri di parole, facendomi intuire che anche secondo lei qualche tassello fosse fuori posto.
Mi incupii ancora. Non potevo conoscere i movimenti di ogni singolo artista, ma ero abbastanza sicura di essere l'unica impegnata con un tour mondiale, al momento. La maggior parte degli artisti della Young Generation risiedevano a Londra, o nel Regno Unito. Sarebbe stato molto più facile conoscere prima loro e attendere che io fossi di ritorno, o quantomeno raggiungermi per ultima, magari in Europa stesso, piuttosto che fare il contrario. Ero sicura che Dalya avesse fatto gli stessi pensieri e, se non me ne stava parlando, evidentemente neanche lei riusciva ad avere una risposta.
Cacciai un sospiro e le poggiai una mano sulla spalla per tranquillizzarla, e forse per tranquillizzare anche me. Poi iniziammo a camminare insieme verso l'ascensore, dove ci salutammo. Premei il pulsante che mi avrebbe condotta al piano dieci dell'hotel, in cui si trovava il bar e, non appena le porte si chiusero, sentii una leggera nausea allo stomaco farsi sempre più presente. Quell'agitazione mi stava mandando fuori di giri. Avevo le mani completamente sudate e non riuscivo a star ferma, continuavo a battere i piedi a terra. Guardai nuovamente l'orologio, mancava meno di mezz'ora. L'ascensore sembrava aver deciso di non arrivare più a destinazione. Afferrai il telefono e approfittai di quel lasso di tempo per fare una telefonata all'unica persona che mi avrebbe distratta.
<<Pronto?>>
Notai come la voce di mia sorella fosse particolarmente roca.
<<Ti ho svegliata?>>
<<Beh tu cosa pensi?! Sono le due del mattino qui! Essere una popstar non ti dà il diritto di svegliare la gente quando ti pare e piace!>> sbottò infastidita.
<<Scusami, hai ragione, avevo bisogno di sentirti un po'.>>
<<Che succede?>> Il suo tono di voce cambiò all'istante.
Sentii il rumore delle lenzuola scostate. Probabilmente si stava allontanando da Audrey per non svegliare anche lei.
Nel frattempo, l'ascensore aveva squillato per l'ultima volta prima di aprire le porte e mostrarmi la grande sala del bar: elegante e, come avevo previsto, sofisticata nel disegn e nei colori, che si limitavano al bianco e nero. Anche qui, come nel resto delle stanze dell'hotel, vi erano delle vetrate che davano su un'altra angolazione della città rispetto alla mia camera, con una prospettiva nettamente diversa. C'erano ventisei piani di differenza, d'altronde, ma la vista restava ugualmente meravigliosa. La parete dietro al bancone era completamente ricoperta di bottiglie di ogni forma e colore, illuminate da neon bianchi nascosti dal controsoffitto. Era una parte dell'hotel che non avevo avuto modo di visitare la prima volta ed ero davvero soddisfatta di ciò che i miei occhi osservavano.
Un cameriere venne verso di me, accennando un inchino.
<<April, ti richiamo fra cinque minuti>> la avvertì, prima di chiudere la telefonata.
Sapevo di averla fatta preoccupare, ma l'avrei richiamata non appena sarei rimasta sola.
<<Salve signorina Smith, ha già un tavolo riservato. Mi segua>> l'uomo stirò le labbra in un sorriso formale e si incamminò verso il corridoio, superando il bancone e raggiungendo un tavolo parzialmente nascosto fra due pareti, circondato da un divano bianco in pelle. <<Vuole che le porti qualcosa nell'attesa?>> mi chiese, tenendo l'avambraccio piegato verso il grembo.
<<Dell'acqua per adesso andrà benissimo, grazie.>>
Fece un altro lieve inchino e si diresse verso il bancone.
Quando fu abbastanza lontano, chiamai di nuovo April, che rispose all'istante.
<<Senti, non puoi chiamarmi in piena notte con quella voce e chiudere dopo neanche cinque minuti!>>
<<Perdonami, hai ragione. Mi stavano accompagnando al tavolo>> spiegai, mentre il cameriere mi lasciava una brocca d'acqua sul tavolo. Gli accennai un sorriso veloce e lo rividi andare via.
<<Tavolo? Scusami dove sei? Che ore sono lì?>>
<<Le diciotto e sono al bar dell'hotel. Devo incontrare il presidente della casa discografica e non riesco a stare tranquilla.>> Fissai le mie dita percorrere il bordo del bicchiere.
<<Ma chi? Quel signore tenerissimo e sorridente con i baffoni che mi hai fatto vedere una volta in foto? Mi avevi detto di non averlo più visto. E poi perché, c'è qualche problema?>>
<<Infatti non l'ho più visto. Lui almeno>> sospirai.
<<Non capisco.>>
<<Ieri, dopo il concerto, ho trovato il camerino invaso da rose nere mandate da un certo Ash Clark, che ho scoperto essere il nuovo presidente. Devo vedere lui. Non so il motivo.>>
<<Scusami, e Dalya non sa dirti nulla? Non è lei che si occupa di cose del genere?>>
<<No se ad organizzare ciò è stato il suo stesso capo, a quanto pare. In ogni caso, è solo uno stupido incontro e mi sto facendo prendere dal panico senza un motivo. Sarà la paura di non riconoscerlo e fare qualche figuraccia delle mie, al solito. Non so neanche che aspetto abbia.>>
<<Magari quello delle rose è stato solo un gesto carino di presentazione. Avrà sentito da qualcuno quanto ti piacciano le rose nere. In giro si trovano più cose di te di quanto pensi. È il prezzo della fama, sorellona.>>
Non dissi nulla. I miei pensieri si soffermarono di nuovo su quelle rose nere. Forse aveva ragione lei, dovevo smetterla di crogiolarmi in paranoie inutili.
<<Ivory, sta tranquilla. È il presidente della casa discografica con cui hai un contratto, d'altronde. Credo che avere un po' d'ansia sia normale. E credo sia normale anche che lui voglia conoscerti. Certo, in maniera strana, ma ognuno è fatto a modo suo. Scommetto che è uno di quei vecchiacci puntigliosi che devono avere sempre tutto sotto controllo!>> esclamò ridendo.
Bene, un vecchiaccio mi ha sommerso il camerino di rose nere, grande.
<<Spero davvero tanto che tu abbia ragione. Adesso vado, dovrebbe arrivare da un momento all'altro e vorrei davvero evitare qualche brutta figura. Da' un bacio ad Audrey da parte mia, ti voglio bene.>>
<<Anch'io. E ancora, sta tranquilla>> rispose, prima di salutare e riagganciare.
Cacciai fuori l'ennesimo sospiro della giornata, mentre mi impegnavo a ripetermi le parole di April come fossero un mantra. Aveva pienamente ragione, vedere il direttore era qualcosa di nuovo ed essere un po' agitata era normale. Dovevo convincermene.
Guardai l'orologio di nuovo. Quante volte lo avevo fatto quel giorno? 06:30 p.m. Era in ritardo di mezz'ora. Non era certamente il miglior modo di farsi conoscere e non mi aiutava a tranquillizzarmi, anzi, chissà quanto tempo ancora avrei dovuto sopportare quel nervosismo.
Mi poggiai al divano nell'angolo accanto alla grande finestra. Il cielo di febbraio era già completamente buio e sgombro di nuvole. Qualche stella sopravviveva alle luci della città e si mostrava nitida in cielo.
Mi piaceva fantasticare sulla storia di ogni stella fin da quando ero piccola. Ogni primavera, zia Elisa adorava portare me ad April in collina. Andavamo di mattina, portando con noi la tenda da campeggio, il tavolo richiudibile, e il cestino con tutto ciò che avremmo mangiato durante la giornata. Arrivata sera, zia stendeva un telo sull'erba e ci faceva sdraiare, raccontandoci delle stelle, di come anche loro si innamorassero e di quanta forza avessero per brillare in mezzo a tutto quel buio. Ci parlava sempre di Altair e Vega, e di una vecchia leggenda giapponese che narrava di come loro in realtà fossero due innamorati che potevano incontrarsi solo una volta l'anno, la sera del sette luglio, quando la Via Lattea – la stessa che li separava – fungeva loro da ponte per condurli nello stesso luogo. Avrei tanto voluto essere in quella collina, sotto quel cielo, piuttosto che dentro quel bar.
Mi girai verso il resto della sala nella speranza di intravedere qualcuno, ma notai solo come gran parte della gente avesse lasciato il proprio posto e fosse andata via, presumibilmente verso il ristorante, considerato l'orario.
<<Signorina.>>
Alzai lo sguardo verso il cameriere di poco prima.
<<È sicura di non volere nulla nell'attesa?>>
Attesa, altro che. Stava iniziando a diventare urtante l'idea di stare seduta lì ad aspettare qualcuno che avrebbe dovuto essere arrivato già da un'ora.
<<No, anzi>> presi una banconota dal mio portafoglio e gliela porsi, <<grazie per la gentilezza, ma credo che andrò via.>>
Mi alzai dal tavolo e andai verso l'ascensore all'ingresso. Pregai con tutta me stessa che all'interno non ci fosse nessuno, e fortunatamente fu così. Non ero dell'umore per ridere e scherzare, farmi riconoscere dalle persone e dover accettare qualche foto. Un attimo prima di pigiare il numero trentasei, i miei occhi si posarono sul quarantesimo piano: l'attico. Ero abbastanza certa che non ci fosse nessuno, dato l'orario di cena, e io avevo davvero tanto bisogno di stare un po' sola. Se fossi tornata in stanza avrei sicuramente trovato Dalya ad aspettarmi per riempirmi di domande, e non avevo molta voglia di rispondere a nessuna di esse, al momento.
Le porte dell'ascensore si chiusero e io tirai un enorme respiro di sollievo, talmente tanto contenta di non aver dovuto partecipare a quell'incontro da non essere quasi neanche infastidita per aver dovuto aspettare un'ora sola seduta ad un tavolo. Certo, mi sarebbe piaciuto capire cosa fosse successo da non permettergli di presentarsi, ma era una curiosità che poteva tranquillamente restare tale.
Dopo qualche minuto, l'ascensore si fermò e le porte si aprirono, rivelando uno spettacolo meraviglioso. Le luci della città si stagliavano davanti a me, colorando tutto fino all'orizzonte. I led della piscina, che riempiva buona parte della terrazza, illuminavano la superficie dell'acqua, riflettendo sulla copertura in vetro.
Mi sedetti sul bordo in marmo, levai le scarpe, e immersi i piedi, inclinando la testa indietro e socchiudendo gli occhi. L'acqua era sempre stata il mio elemento. Amavo nuotare più di ogni altra cosa al mondo, esattamente come cantare. Erano entrambe cose che mi facevano sentire incredibilmente libera, come se potessi fluttuare in cielo senza paura di cadere. Avevo sempre vissuto la mia vita accompagnata da un senso di vuoto costante. Non mi aveva mai abbandonata, neanche nei momenti più felici, e quando mi lasciavo andare un attimo, lo sentivo più presente che mai. Ma avevo imparato a considerarlo parte di me e lo accettavo. Cantare e nuotare erano la mia terapia.
Le stelle si vedevano leggermente meglio per via dell'altezza, nonostante la copertura in vetro. Ma la luna piena illuminava il cielo e ostacolava il loro bagliore. L'ultima volta che mi ero ritrovata qui era piena estate, circa le due del mattino. Avevo appena finito un concerto e sarei dovuta andare a letto, pronta per salire sul tour bus l'indomani mattina all'alba, ma mi sentivo così carica da non avere alcuna voglia di dormire, così venni qui. Ricordo ancora il caldo di quella sera – un po' come questa – il silenzio della città che sembrava essersi spenta improvvisamente, e le mie mani a sfiorare il pelo dell'acqua. Stavo bene. Incredibilmente bene. Io, la piscina, l'attico, lo skyline della città e il mio cuore che batteva all'impazzata senza aver ancora realizzato che tutto quello che mi stesse succedendo fosse reale.
<<Non senti freddo con i piedi in acqua?>>
Sobbalzai, risvegliata bruscamente dai miei ricordi, e aprii di scatto gli occhi verso l'altro capo della piscina, dove riuscii ad intravedere la silhouette di un uomo.
Lo guardai qualche secondo, titubante. <<L'acqua è riscaldata e la serata è calda, non fa per nulla freddo.>>
Abbassai lo sguardo verso le mie gambe sommerse per metà e illuminate dai led.
<<Allora la situazione cambia>> rispose ironico, sogghignando pungente.
La sua voce era calda, a tratti roca. Sollevai lo sguardo per focalizzarmi di nuovo sulla sua figura slanciata, fermo ancora nello stesso punto. Una sensazione strana a cui non seppi dare un nome mi colpì allo stomaco.
<<Come mai te ne stai lì al buio?>>
<<Il buio mi piace. Mi rappresenta>> spiegò brevemente, lentamente, trascinando le parole, come a volermi far percepire il movimento che stessero facendo le sue labbra.
<<Piace anche a me per lo stesso motivo>> risposi, abbassando nuovamente lo sguardo.
<<Dovresti essere nella tua stanza, no? Un personaggio del tuo calibro avrà degli impegni durante un tour, giusto?>>
Accigliai lo sguardo d'istinto, consapevole che lui non potesse vedermi esattamente come io non potessi vedere lui.
<<Tu come lo sai?>>
<<Che avrai degli impegni?>>
<<No, chi sono io. Non mi vedi.>>
Lo vidi dondolarsi un po' sui suoi passi e abbassare la testa.
<<La tua voce>> disse soltanto.
La mia voce. Mi aveva riconosciuta dalla mia voce, il che era plausibile, ma non sicuro. Non poteva esserne mica certo.
<<Dovrei essere nella mia stanza, sì. Ma la vista qui sopra è meravigliosa. E mi andava di rilassarmi un po'. Puoi immaginare com'è: team, manager, tutte cose che mi aspettano giù.>>
Non sembrava un amante delle parole, ma non riuscivo ad essere indifferente alla sua voce. In qualche strano modo, mi attraeva.
Approfittando della poca visibilità reciproca, strinsi gli occhi per cercare di distinguere qualche suo tratto, senza alcun risultato. La luna piena mi permise di attenzionare soltanto i suoi capelli lunghi.
Era decisivamente in vantaggio. Se sapeva chi fossi, conosceva il mio aspetto. Mi sentivo messa a nudo, non solo per quel motivo, ma c'era qualcosa nel suo modo di fare che mi dava la sensazione di essere studiata. Come se stesse cercando di scavarmi dentro e trovare qualcosa di suo interesse.
<<E tu perché sei qui?>> domandai.
<<Prendevo un po' d'aria prima di scendere a divertirmi.>>
Vidi la sua figura girare intorno alla piscina e venire verso di me. Sollevai le gambe dall'acqua e mi misi in piedi. Per qualche motivo, il mio corpo aveva deciso che restare seduta non era ciò che avrei dovuto continuare a fare.
Quella che fino a quel momento era stata un'ombra, iniziava ad avere dei tratti sempre più definiti. Era vestito completamente di nero. Aveva una t-shirt semplicissima e dei jeans strappati all'altezza delle ginocchia. Come avevo intuito poco prima, i suoi capelli erano abbastanza lunghi e ricadevano morbidi sulle spalle. Nonostante i riflessi, non riuscivo a capirne bene il colore. Concentrai lo sguardo sul suo viso: aveva la mascella abbastanza squadrata, ma non in maniera pesante, le labbra definite, di un rosa vivido, carnose, ma non troppo. Sollevai un po' lo sguardo verso i suoi zigomi alti, per arrivare, poi, ai suoi occhi. Non appena li guardai per bene, sentii brividi percorrermi ogni singola parte del corpo e congelarmi. Erano allungati, estremamente profondi, illeggibili. Ed erano incredibilmente verdi. Non avevo mai incontrato occhi del genere. Sembravano chiamarmi, tenermi incastrata senza possibilità di fuga.
<<Comunque, vorrei scusarmi.>>
La sua voce cambiò, diventando ancora più profonda.
Strinsi gli occhi, confusa dalle sue parole.
<<Scusarti? Perché?>>
Si fermò affianco a me, sfiorandomi la spalla col suo braccio. Era notevolmente più alto di me, mi torreggiava senza difficoltà. Avvertii un vago odore di ciliegia, era piacevole ma sapeva di sporco in un modo che non riuscivo a comprendere. Si abbassò leggermente avvicinandosi al mio orecchio. Improvvisamente, il mio stomaco venne invaso da una quantità di sensazioni tali da non riuscire a distinguerle.
<<Perché ti ho lasciata sola a quel tavolo stasera, ragazzina. Ma avevo qualcun altro con cui divertirmi>>.
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Frantumi D'Avorio
RomansaNew York, febbraio 2021. Ivory Smith è una delle popstar più famose sulla scena della musica mondiale, nonché trampolino di lancio e luce della ribalta della casa editrice che l'ha formata e fatta brillare: la Young Generation. Ma cosa può succedere...