01.
Febbraio 2021.
Quattro anni dopo.
Backstage, 08:00 p.m.Mancava meno di mezz'ora all'inizio del tredicesimo concerto del mio secondo tour mondiale. Dodicesima tappa, ultima esibizione di due concerti consecutivi: New York, sold out, 30.000 persone.
Ero nel mio camerino da sola, come da rito ogni trenta minuti prima dell'inizio. Era una regola ormai conosciuta da tutto il team. La mezz'ora prima dell'inizio era completamente mia. Non facevo nulla di che, ma stare sola prima di dare tutta me stessa davanti a quell'oceano di persone mi permetteva di rendermi conto di quanto reale fosse tutto ciò, nonostante ormai quella fosse la mia vita da quattro anni.
Ogni volta che salivo sul palco e guardavo la folla di gente lì solo per me, mi rendevo sempre conto di quanto tutto ciò fosse incredibile, di quanta strada avessi fatto, di quante persone mi amassero e di star vivendo il sogno più bello della mia vita.
Appoggiata al divano, chiusi gli occhi e buttai la testa indietro. Pensai ad April e zia Elise che mi avrebbero seguita in diretta da casa e avrebbero fatto il tifo per me come fosse il mio primo concerto.
Zia continuava a lavorare nella nuova pasticceria che le avevo regalato due anni prima, come ringraziamento per tutto ciò che lei aveva fatto per me e mia sorella fino a quel giorno, e ciò che sapevo avrebbe continuato a fare. April aveva deciso di andare a studiare in Italia l'anno prima. Frequentava un'università di letteratura italiana con l'intento di diventare manager di una casa editrice. Audrey aveva deciso di partire con lei, non in quanto sua amica, ma in quanto sua fidanzata. Non era stata una sorpresa per nessuno, né per me né per zia. Lo avevamo capito da tempo e, quando ci diede la notizia, non potevamo far altro che essere davvero contente. Avevano affittato un monolocale e vinto anche delle borse di studio con cui pagare parte delle tasse. Le avevo detto che mi sarei occupata di pagare le spese riguardanti l'università, ma April aveva insistito nel cercarsi un lavoro e non dipendere da nessuno. Avevo appoggiato la sua scelta senza alcun problema, non mancando di dirle che mi avrebbe dovuta chiamare senza esitazione se si fosse presentato qualche ostacolo. Finora, fortunatamente, sia lei che Audrey se la stavano cavando alla grande.
Aprii gli occhi quando sentii le prime urla solcare le tribune. Godei di quel vociare sempre più forte, tutti in attesa che io arrivassi sul palco, afferrassi la mia chitarra e cantassi. Adoravo come ognuna delle persone presenti urlasse le mie canzoni. Era una sensazione che mi faceva sentire estremamente vicina ad ognuno di loro. E ognuno di loro estremamente vicino a me.
Qualcuno bussò alla porta tre volte di fila seguendo un preciso ritmo che avrei riconosciuto fra mille. Mi alzai dal divano e girai la chiave nella serratura, aprendo la porta e trovandomi due occhi verdi che mi analizzarono severi.
<<Hai finito con i tuoi rituali scaramantici e le bamboline voodoo da prendere a freccette? Mancano cinque minuti!>> mi avvertì, puntandomi una penna addosso.
<<Dalya, come te lo devo dire che non faccio alcun rituale scaramantico con le bambole voodoo?>>
Mi rivolse una linguaccia e mi fece cenno di procedere verso il corridoio che mi avrebbe condotta al palco.
Dalya era diventata la mia manager, anche se non da subito. Dopo il mio debutto, John Taylor, ormai un amico, aveva deciso di diventare egli stesso il mio manager. E fu così inizialmente. Ma, per quanto mi facesse piacere avere lui al mio fianco, tanta era la gratitudine che provassi nei suoi confronti, non volevo che rinunciasse al suo ruolo da rappresentante che sapevo quanto adorasse. Gli chiesi se fosse possibile dare il titolo a Dalya che da subito aveva fantasticato su quell'idea. Così John le indicò la strada da seguire per poter ottenere quel lavoro. Non fu facile, né veloce, ma la vidi impegnarsi parecchio e, grazie all'aiuto di John che parlò col direttore del management della Young, venni affidata a lei.
Dalya mi fece strada verso il sottopalco in cui c'era la pedana che mi avrebbe fatta apparire di sopra, accompagnata dalle note della mia prima canzone. Tutto il team mi salutò con grandi sorrisi, pronti anche loro a dare il meglio. Erano una squadra instancabile senza cui non avrei potuto realizzare tutto ciò.
<<Pronta?>> mi chiese Harry.
Era il direttore tecnico della fotografia, nonché ormai una delle persone di cui più mi fidavo, mentre io mi posizionavo sulla pedana con la chitarra elettrica appesa al collo.
<<Nata pronta!>> esclamai, rivolgendogli un immenso sorriso.
La pedana sotto i miei piedi si sollevò, le luci del palco vennero spente, il silenzio venne spezzato dalle urla delle trentamila persone che sapevano fossi lì, la musica padroneggiava l'atmosfera. Sollevai le mani in alto e in pochi secondi fui sul palco, luci blu puntate su di me, e le prima parole della mia canzone già sulla punta della lingua. Bastò una schitarrata per far tacere tutto il pubblico e iniziare a cantare. Il silenzio si tramutò subito in un immenso coro che, come sempre, sembrava conoscere le mie canzoni meglio di quanto le conoscessi io. Le luci non smettevano di volteggiare nell'aria, il mio cuore non smetteva di correre e non avrebbe smesso fino alla fine del concerto. Alzai gli occhi per osservare lo spettacolo davanti a me: il parterre e le tribune erano colmi di cartelloni con frasi di ringraziamento, dichiarazioni d'affetto, storie di come avessi salvato la vita di coloro che stavano lì a guardarmi. Cantavo e basta, eppure la mia voce li aveva salvati. In qualche assurdo modo, ognuno di loro mi riconosceva come chi li aveva tenuti ancorati alla vita. Ogni volta che sentivo qualcuno ringraziarmi per questo, non riuscivo a capacitarmene. Probabilmente non ci sarei riuscita mai. Ma solo l'universo intero sapeva quanto amavo tutto ciò.
Appena finii di suonare la mia canzone, afferrai il microfono e sorrisi a tutti coloro che avevo davanti. <<Ciao New York! Come state?>>
Un frastuono di parole e urla mi travolse potente e immenso: era la loro risposta.
<<È il mio ultimo concerto qui a New York. Voglio che sia speciale, che ne dite, riusciamo?>>
Ed eccole di nuovo là le urla che volevo sempre sentire.
Andai in un angolo del palco per dare la mia chitarra a Dalya, che non si perdeva neanche un secondo dei miei concerti, restando appena dietro il palco pronta per la qualsiasi cosa. Tornai al microfono annunciando la prossima canzone e subito le luci si attenuarono e il grande schermo alle mie spalle si accese, riproducendo il video musicale del brano che stavo per cantare. Era una delle prime canzoni che avevo scritto e sentivo ancora le sensazioni che avevo provato seduta davanti la grande vetrata della casa che avevo acquistato a Londra, guardando il sole scomparire dietro i grattacieli, con la chitarra sulle gambe. Cantavo sempre ad occhi chiusi, usavo la mia empatia come filo conduttore fra il passato e le mie sensazioni attuali, ne facevo tesoro e le proteggevo, gelosa del tempo che portava via ogni secondo della mia vita trascorso sul palco.
Fra urla, mani che battevano a tempo, palloncini colorati lanciati a sorpresa sul palco, dediche che puntualmente mi facevano lottare contro le lacrime, che se fossero scese avrebbero creato una strage con il trucco, e risate, passarono due ore ed il concerto finì.
Andai verso il mio camerino fra gli applausi generali del mio team e Dalya che mi camminava dietro riempendomi di una miriade di complimenti, ripetendomi che era stato il concerto migliore in assoluto – cosa che diceva alla fine di ogni mio concerto – ed esibendosi in una serie variegata di saltelli.
<<Io tolgo il trucco dal viso e indosso qualcosa di più comodo. Mi aspetti o preferisci tornare in hotel?>> le chiesi, una volta arrivate davanti la porta del mio camerino.
<<Ti aspetto. I ragazzi torneranno in hotel più tardi, devono ancora smontare tutto.>>
<<Hai ragione, perdonami, è la stanchezza. Allora dammi un quarto d'ora circa e sarò pronta>> le lasciai un bacio sulla guancia e mi rifugiai dentro il mio camerino.
Poggiai la schiena contro la porta e sospirai. Ero stanca e, per quanto fosse la stanchezza più soddisfacente del mondo, il mio fisico ne risentiva completamente. Non appena aprii gli occhi, però, quello che vidi mi pietrificò. La stanza era ricolma di rose nere. Sul divano, sul pavimento, accanto all'armadio, davanti lo specchio, vicino ai miei piedi. Ovunque. Mi era capitato innumerevoli volte che qualcuno mi facesse trovare dei mazzi di fiori nel camerino. Spesso erano i ragazzi del team, altre volte qualche fan, qualche amico, altre ancora regali di zia Elise. Ma mai qualcosa del genere.
Mi allontanai dalla porta a andai più vicina alle rose. Erano magnifiche. Erano le mie rose preferite, ma erano davvero pochi ad esserne a conoscenza. Mi girai intorno alla ricerca di qualcosa che potesse suggerirmi il nome di chi le avesse mandate e, dopo aver controllato vaso per vaso, intravidi un bigliettino proprio sopra il tavolo sottostante allo specchio. Mi feci largo attraverso quella confusione di petali per leggere da parte di chi fossero: Ash Clark. Un nome e un cognome, fine. Non c'era altro su quel pezzo di carta plastificata. Confusa, andai a sedermi sul divanetto rosso alle mie spalle e fissai quel nome nella speranza di ricordare o capire chi fosse. Passai mentalmente in rassegna tutti i ragazzi del team, gente varia che mi era stata presentata durante qualche evento, chiunque mi venisse in mente, senza però arrivare a nulla. Restai sovrappensiero per più tempo di quanto avessi immaginato, finché non sentii bussare insistentemente alla porta.
<<Ivory, che diamine stai facendo?!>>
Mi alzai di scatto dal divanetto e corsi verso la porta, frenandomi un attimo prima di aprire.
Guardai indietro cercando di capire come spiegare tutto quello a Dalya, poi tirai un sospiro e abbassai la maniglia, trovandomi i suoi occhi innervositi puntati dritti nei miei e le mani poggiate sui fianchi.
Non fece neanche in tempo ad urlarmi contro per avermi trovata ancora vestita e truccata che subito, con un'espressione anche più sorpresa della mia, mi scostò dalla porta.
<<Che cazzo è successo qui dentro?>> chiese, più scioccata che sorpresa, girovagando dentro la stanza. <<Da dove saltano fuori tutte queste rose?!>>
<<Non lo so, speravo sapessi dirmelo tu. L'unica cosa che ho trovato sopra al bigliettino è un nome, un certo Ash Clark>> feci spallucce e afferrai l'acqua micellare da sopra il tavolo.
Dal riflesso allo specchio potei notare gli occhi della mia manager sgranarsi così tanto da darmi la sensazione che da lì a poco sarebbero usciti fuori dalle orbite.
Mi voltai a guardarla, preoccupata. <<Dalya...>>
Si girò a guardami con la medesima espressione. <<Ash Clark è il nuovo presidente della Young Generation.>>
Accigliai lo guardo e spalancai le braccia. <<E perché mai il nuovo presidente della casa discografica avrebbe deciso di far invadere il mio camerino con una valanga di rose? E soprattutto, perché non sapevo che il presidente della casa discografica fosse cambiato?!>>
<<Non ne ero a conoscenza neanche io, l'ho saputo stamattina. È avvenuto tutto quest'ultima settimana. Non conosco il motivo e non so il perché di questo gesto, magari è un modo di farsi conoscere, lo avrà fatto anche con gli altri artisti, probabilmente>> ipotizzò, continuando a fissare quelle rose poco convinta di ciò che lei stessa stesse dicendo, ma io avevo già perso interesse per quei fiori. Gesto di presentazione o meno, mi era indifferente.
Il presidente si faceva vedere davvero poco da noi artisti. Si occupava di firmare le scartoffie che riguardavano aspetti formali della casa discografica, andare alle cene di rappresentanza, e firmare i contratti degli artisti. Tutto qui. Era il management ad occuparsi di tutto ciò che rimaneva. Insomma, erano figure mitologiche di cui noi artisti avevamo soltanto sentito parlare. Il presidente precedente avevo avuto l'onore di vederlo solo una volta, quando andai per la prima volta in sede per provare. Quel giorno firmai il contratto davanti ai suoi occhi, seduta alla sua scrivania, nel suo sofisticato studio. Per il resto, avrebbe potuto essere una figura anche inesistente, esattamente come lo sarebbe stato quello attuale.
<<A proposito, ci raggiungerà domani a Sacramento. Credo che arriverà nel pomeriggio, ma non so quando di preciso perché non mi è dato saperlo>> mimò delle virgolette, <<presumo voglia conoscere gli artisti più importanti della Young>> ipotizzò ancora.
La poca informazione che la mia manager aveva su tutta questa situazione mi straniva. Proprio perché parte del management, doveva essere una delle prime persone informate riguardo ogni cambiamento che riguardasse non solo me, ma la casa discografica di cui facevo parte.
Sacramento era la tappa del mio prossimo concerto, avrei preso un aereo quella mattina alle cinque per raggiungere la città. Perché il presidente della casa discografica voleva conoscermi al punto tale da prendere un aereo che lo avrebbe portato da Londra fino alla California? Non era un viaggio breve. Avrebbe tranquillamente potuto aspettare il mio ritorno a Londra, oppure organizzare una conferenza virtuale. Qual era il motivo di tanta urgenza?
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Frantumi D'Avorio
RomansaNew York, febbraio 2021. Ivory Smith è una delle popstar più famose sulla scena della musica mondiale, nonché trampolino di lancio e luce della ribalta della casa editrice che l'ha formata e fatta brillare: la Young Generation. Ma cosa può succedere...