Londra.

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01.

Giugno 2017.
19 anni dopo.
Casa, 06:00 p.m.

Ivory Smith.

<<Poi non fai altro che dare a me la colpa dei tuoi ritardi al lavoro!>>
April non smetteva di lamentarsi, facendo rimbombare la sua voce per tutte le scale, come se poi fosse una bugia che la colpa dei miei ritardi al pub fosse quasi sempre sua.
Afferrai velocemente lo zaino in pelle nera che stava poggiato sulla sedia di fronte alla scrivania e mi precipitai al piano inferiore. Passai le mani sul tavolo di vetro basso all'ingresso alla ricerca delle chiavi della mia auto, che ovviamente avevano deciso di sparire proprio nel momento meno opportuno. Iniziai a girarmi intorno cercando disperatamente di scorgerle da qualche parte, senza il minimo successo. Posizionai meglio lo zaino sulla mia spalla per evitare che continuasse a scivolare e andai a dare una rapida controllata in cucina, ma anche lì nulla.
<<Idiota, le ho io le chiavi!>> esordì mia sorella, affacciando la testa dentro casa e sventolando le chiavi a mezz'aria con aria annoiata.
Sbuffai sonoramente e la seguii fuori casa, chiudendomi la porta alle spalle.
Una volta in macchina misi subito in moto, mentre lei non perse più di cinque minuti ad accendere la radio, collegarla al suo cellulare e mettere una di quelle terrificanti canzoni più parlate che cantate che era solita ascoltare e che io non capivo minimante. Una cosa era certa, quei miei pensieri mi facevano sentire un'anziana signora zitella e stanca della vita a soli ventuno anni. Fare storie per la musica, comunque, non rientrava fra i piani della serata: era già abbastanza tardi e lei sarebbe scesa fra qualche minuto dalla macchina per andare da Audrey, una delle ultime amiche conosciute nella nuova scuola che aveva deciso di frequentare.
Vedere April finalmente in compagnia di qualcuno mi rendeva incredibilmente contenta. Aveva un carattere abbastanza particolare. Era testarda, a volte prepotente, irrequieta, e non riusciva a fare mai un passo indietro. Era spesso difficile gestirla, essere la perfetta sorella maggiore, capire cosa fosse meglio dirle o se fosse meglio tacere e aspettare che le passasse la crisi del momento. E tutti quegli aspetti della sua personalità si riversavano su chiunque le stesse accanto, motivo per cui non aveva mai avuto un grandissimo numero di amiche o amici. Eccetto Audrey, che sembrava essere ormai da mesi il suo rifugio sicuro, ed io non avrei potuto esserne più contenta.
<<Verrà a prenderti la zia dopo lavoro, okay? Io farò tardi, come al solito.>>
Le schioccai un bacio sulla guancia ricevendo in risposta una smorfia infastidita, poi la guardai scendere dalla macchina e andare verso casa dell'amica che la aspettava già fuori dal portone. Suonai il clacson in segno di saluto e sfrecciai via.
Avevo dieci minuti esatti per attraversare buona parte della città e raggiungere il Moon Pub, il che non era per nulla semplice di sabato sera. Lavoravo lì come barista da quasi un anno e, nonostante la mia repulsione per la confusione, amavo il mio lavoro e la possibilità di conoscere così tante sfaccettature del carattere umano. Pensavo di incontrare solo alcolizzati, ragazzini, gente che preferiva affogare i propri pensieri in un Long Island o in un Cosmopolitan ma, con mio iniziale stupore, avevo scoperto che anche la gente più assurda nascondeva storie da raccontare in grado di cambiarti la serata e anche un po' la vita. Era qualcosa di molto piacevole, soprattutto se, come me, si aveva la strana abitudine di voler scoprire cosa ci fosse dietro un sorriso, sapere perché quegli occhi brillassero così tanto e perché quegli altri invece non lo facessero, immaginare cosa avesse reso quella persona esattamente così com'era e appariva. E questo anche se quello al pub era un lavoro che non volevo mantenere per tutta la vita, ma solo un ripiego momentaneo che avrei tenuto finché non sarei riuscita a trovare la via adatta a fare ciò che più amavo: cantare.
Quando chiudevo gli occhi vedevo me e la mia chitarra, l'asta del microfono, un palco e una quantità incontenibile di persone lì per me. Era un sogno che mi portavo dentro da sempre, che mi accompagnava giorno e notte, e che avrei fatto di tutto per realizzare. Per adesso, però, dovevo accontentarmi di un karaoke improvvisato sotto la doccia, in macchina, o prima di andare a dormire saltellando per la stanza. L'unico luogo in cui sarei dovuta saltare in quel momento, tuttavia, era fuori dalla mia auto.
Spensi la radio che non aveva fatto altro che risuonare inascoltata per tutto il tragitto e mi fiondai dentro al locale. I neon blu che illuminavano tutta la sala mi colpirono subito gli occhi.
<<Ivory, ciao!>>
Sobbalzai per lo spavento appena sentii la voce di Viky.
<<Hai fatto un po' tardi e mi sono presa il permesso di prepararti il bancone. Spero non ti dispiaccia>> spiegò sorridendomi.
Le sorrisi di rimando e la ringraziai, per poi vederla tornare in giro per la sala e finire di organizzare i tavoli interni al locale.
Viky aveva soltanto sedici anni ed era la figlia del proprietario del locale. Sarebbe bastato questo per darle l'autorità necessaria ad innalzarsi sopra chiunque, ma la sua dolcezza non avrebbe consentito alla sua mente neanche di partorire un pensiero del genere. Si mostrava sempre estremamente disponibile con chiunque le parlasse.
<<Travolgente come sempre la piccola Viky, vero?>>
Con la coda dell'occhio vidi una figura dai capelli rossastri posizionarsi al mio fianco e poggiarmi una mano sulla spalla.
<<Già!>> esclamai.
Dalya mi sorrise e fece un balletto buffo ondeggiando le mani prima di uscire a sistemare i tavoli esterni del pub.
Era la mia migliore amica e vederla era tra le cose che più mi rendevano felice da ormai quattordici anni. I suoi genitori erano irlandesi che, poco dopo il matrimonio, avevano deciso di venire a vivere a Londra, ritrovandosi nel mio stesso quartiere e stringendo un ottimo rapporto con la mia famiglia. Eravamo cresciute insieme senza mai perderci seriamente di vista e condividendo ogni cosa. Era sempre stata presente anche per April ed era un gesto che apprezzavo davvero moltissimo.
Era stata proprio lei a trovarci questo lavoro, o per meglio dire, lo aveva trovato per sé stessa in modo da potersi mantenere gli studi al collage senza pesare sulle spalle dei suoi genitori, cosa che per il suo immenso senso di responsabilità era fuori discussione. Ma quando mi disse della disponibilità del posto da barista, accettai: era un ottimo modo per rendermi anch'io utile con le spese in casa.
Andai dietro al bancone dove notai i distillati e i liquori in ordine, la frutta già perfettamente intagliata dentro gli appositi contenitori della workstation, il lavello ordinato e i contenitori in cui avrei messo il ghiaccio perfettamente organizzati. Viky aveva fatto un ottimo lavoro, mi restava solo da prendere sia il ghiaccio a cubetti che quello tritato, ma niente che richiedesse troppo tempo.
Quella sera al pub si sarebbe esibita qualche band, come ogni sabato sera, e la cosa mi rendeva sempre particolarmente entusiasta. Era un'altra delle cose che adoravo del Moon. Non erano mai band chissà quanto famose, più che altro ragazzi del luogo, ma alcuni erano davvero bravi e avrebbero meritato davvero tanto. Sicuramente per loro esibirsi in un piccolo pub di Londra era già qualcosa di grandioso, e noi eravamo felici di potergli dare quest'opportunità.
Finii di preparare e sistemare le ultime cose proprio quando Kyle, il proprietario, arrivò al locale pronto ad aprire per dare il via alla serata. Non era un tipo di molte parole e il suo aspetto paffuto e burbero non aiutava, ma era sempre stato molto cordiale e gentile, come la figlia, anche se decisamente più introverso.
Non so come fosse possibile, ma ogni sabato sera assistevo alla stessa scena: il locale passava dall'essere completamente vuoto a non aver più nemmeno una sedia libera nel giro di mezz'ora. L'aria era già decisamente diversa, meno pulita, e impregnata dell'odore di alcol. Non era permesso fumare all'interno del pub, ma col viavai dei clienti l'odore del fumo riusciva comunque ad entrare e a colpire in pieno le mie narici. Non avevo mai sopportato quell'odore e in vita mia fra un tiro e l'altro forse avevo fumato una sigaretta intera. Non sapevo neanche io perché l'avessi fatto, probabilmente perché mi andava o probabilmente perché avevo bevuto un po', o forse per capire cosa provassero gli altri nel farlo. In ogni caso, non lo avevo apprezzato per nulla. Bere era l'unico sfizio che mi concedevo una volta ogni tanto. Conoscevo bene gli alcolici, ne avevo assaggiati una grande quantità, li univo, creavo colori, mi divertivo, li studiavo, e non c'era modo migliore se non quello di fare da cavia diretta. Sfortunatamente (o fortunatamente) a causa del lavoro le serate libere che potevo dedicarmi erano davvero poche, e così anche le serate alcoliche, ma non era qualcosa che mi aveva mai recato fastidio. Stare a casa davanti la tv con un cartone di pizza sulle gambe era un'opzione di gran lunga migliore.
Dalya si appoggiò al bancone col gomito, riprendendo fiato dopo aver fatto svariati viaggi fra la cucina, il bar e l'area esterna.
<<Il sabato sera è devastante. Come procede qui?>> mi chiese, indicando la confusione con un cenno del capo.
<<Procede. Arriva una comanda dietro l'altra, ma credo che riuscirò a sopravvivere pure stasera>> risposi, distogliendo per un attimo lo sguardo dall'ennesimo Sex on the Beach che preparavo.
<<Forse avrai un attimo di pausa, arriva la band>> indicò il piccolo palco in fondo alla sala su cui vidi salire tre ragazzi.
Non sembravano i soliti soggetti che usavano la scusa di saper suonare la chitarra per far colpo su tutte le ragazze presenti in sala, avevano più l'aspetto trasandato da giocatori incalliti di videogames e pareva sapessero il fatto loro. Erano seguiti da un uomo sulla quarantina, di bell'aspetto, alto, capelli brizzolati. Lo guardai un attimo con curiosità, poi riposizionai lo sguardo sulla band, mentre Dalya prendeva gli ultimi due cocktail dal bancone e scattava di nuovo verso l'esterno del locale.
Non sapevo per quale motivo, ma ogni volta che arrivava una nuova band erano due gli scenari possibili: 1. tutti concentravano l'attenzione su di loro tanto da dimenticarsi dei cocktail, delle chiacchierate al tavolo e delle sigarette; 2. la confusione davanti al bancone aumentava a raffica e le comande si triplicavano perché ubriacarsi diventava un'opzione improvvisamente migliore di ascoltare chiunque ci fosse sul palco. Non sembrava il caso di quei tre, però.
Mi dispiaceva sapere che Dalya non potesse permettersi quei piccoli momenti di tregua. La cucina non si fermava e i tavoli esterni erano quasi sempre occupati da tutti coloro a cui la musica non interessava molto.
La band iniziò a suonare e, fra le lavate di bicchieri e la preparazione dei cocktails, potei affermare che il loro soft rock non era per nulla male, e l'attenzione della sala confermava ciò. Il ragazzo dai capelli rossi suonava davvero abilmente il basso, mentre il moro più bassino aveva una voce gracchiante davvero inusuale. Anche il ragazzo alla batteria sembrava sapere bene come usare le bacchette. Era davvero piacevole ascoltarli.
Dopo un paio di brani si fermarono per bere dell'acqua e presentarsi meglio al pubblico, ma non prestai molta attenzione e approfittai di quel momento per iniziare a riordinare tutto ciò che non sarebbe servito più per il resto della serata.
<<Ivory!>>
Sobbalzai quando sentii Dalya urlare il mio nome, così alzai lentamente lo sguardo e mi ritrovai il suo dito puntato addosso. E gli occhi di tutta la sala su di me. Ed io ero una frana a gestire situazioni in cui mi trovavo al centro dell'attenzione e in quel momento avevo gli occhi di almeno sessanta persone addosso. Ma il panico vero arrivò quando notai il cantante del gruppo scendere dal palco e venirmi incontro.
Feci un sorriso stirato e mi piegai verso Dalya. <<Dimmi cosa sta succedendo.>>
<<Hanno chiesto qualcuno che cantasse al posto loro per qualche minuto, mi è sembrata un'ottima occasione>> rispose serenamente, come se fosse la cosa che più potesse farmi piacere al mondo.
Le tirai una gomitata sotto al bancone, sicura che nessuno mi potesse vedere, e iniziai a pensare a tutte le possibili vie di fuga. Non avrei mai cantato davanti a tutta quella gente. Il pubblico più esteso che avessi mai avuto si limitava a due piccioni che ogni tanto venivano a riposarsi sul davanzale della mia finestra. Era fuori discussione.
Il ragazzo della band, ormai troppo vicino per nascondermi, mi sorrise.
<<Ivory, hai un nome originale>> mi disse con gentilezza, mentre la mia espressione lasciava trasparire soltanto panico.
Sentivo l'aria mancarmi nei polmoni e l'ossigeno mancarmi al cervello. Sarei potuta svenire da un momento all'altro.
<<Quindi, canti tu? Noi siamo un po' stanchi.>>
Misi le mani avanti e le scossi contemporaneamente alla testa. <<Non credo sia il cas->>
<<Ma certo che lo farà! È ben lieta di concedervi un attimo di riposo, vero Ivory?>>
Mi girai di scatto lanciando un'occhiataccia a Dalya, mentre lei sfoderava tranquillamente un sorriso smagliante.
Il cantante mi porse il microfono ed io, costretta più dalle occhiate dell'intera sala che dalla mia amica, lo afferrai titubante.
Mi feci largo tra la gente fino al piccolo palco, ma non appena guardai di fronte a me capii cosa provassero tutti i ragazzi che venivano ad esibirsi in un palchetto umile come quello: la gente che ti guarda aspettando che tu canti per loro, il silenzio che attende solo la tua voce, l'adrenalina scorrerti nelle vene. Era tutto ciò che avevo sempre sognato, anche se in maniera ridotta, e non c'era sensazione che più avrei voluto provare.
D'un tratto la timidezza venne sovrastata dall'emozione e dall'eccitazione. Mi girai a destra, verso l'angolo del locale in cui erano stati sistemati un vecchio jukebox anni 80 e una chitarra classica non utilizzata da nessuno se non da me nei rarissimi momenti in cui arrivavo al pub in anticipo. Scesi dal palco velocemente per prenderla e ritornai subito al mio posto. Controllai l'accordatura dello strumento, la sistemai, e mi posizionai meglio davanti al microfono, ordinando bene la tracolla della chitarra sulla mia spalla. Non sapevo se dovessi presentarmi, se dovessi dire qualunque cosa riguardante ciò che avrei suonato, così decisi di iniziare e basta. Le mie dita iniziarono a muoversi automaticamente sulle corde, spostandosi sui tasti di uno strumento che conoscevo ormai alla perfezione e che ascoltavo fin dall'infanzia.
Ciò che stavo suonando non aveva niente a che fare col rock suonato dalla band prima di me, era tutt'altro stile: una sorta di folk che ricordava la tranquillità del mare durante i tramonti estivi. Non udivo una sola parola, un solo respiro, rumore, provenire da sotto il palco, mentre i miei occhi continuavano a restare chiusi, persi insieme alla mia mente in chissà quanti ricordi. Non percepivo quasi più neanche le mie dita toccare le corde della chitarra, certa però che fossero ancora lì sicure di ciò che stessero facendo. I miei pensieri vennero investiti dall'odore di salsedine, dal rumore delle onde, da lunghi capelli neri di mia madre scomposti dal vento e dalla sua meravigliosa risata, dal suo profumo di borotalco, dalla sua voce che cantava ciò che adesso stavo cantando io, dal sole che spariva nel mare. Ero sicura ormai che qualche lacrima mi stesse solcando il volto e non mi importava assolutamente.
Tutte quelle sensazioni vennero interrotte quando il frastuono degli applausi riempì tutta la sala in una sorta di climax crescente. Aprii gli occhi e ciò che vidi mi lasciò di sasso: erano tutti in piedi ad applaudire per me. Alcuni a ridere, altri addirittura a piangere. Tutti coloro che erano seduti fuori adesso stavano in piedi in fondo alla sala accalcati come formiche, esultando e applaudendo. Potevo vedere Dalya tamponarsi gli occhi con un fazzolettino e Viky non smettere di sorridermi. Persino Kyle, sempre così distaccato, tirò un mega fischio senza pensarci troppo. Il mio entusiasmo non sarebbe bastato a descrivere le sensazioni che stavo provando. Gli applausi non accennavano a smettere ed io, imbarazzata, scesi dal palco.
<<Signorina Ivory.>>
Una voce non familiare alle mie spalle richiamò la mia attenzione. Appena mi girai, vidi l'uomo dai capelli brizzolati che era entrato nel locale insieme ai tre ragazzi.
<<Salve, mi chiamo John Taylor, le dispiacerebbe seguirmi fuori? Vorrei scambiare due chiacchiere con lei>> chiese cordialmente, piegandosi alla mia altezza e alzando il tono di voce per sovrastare il chiacchiericcio.
<<Mi dispiace, io devo rimettermi subito lavorare.>>
<<Le lascio il mio bigliettino da visita. La prego di contattarmi appena possibile, vorrei proporle una cosa>> concluse poi, porgendomi il cartoncino che non mi soffermai a guardare e che misi direttamente nella tasca dei miei jeans.
Strinsi la mano all'uomo e scappai di nuovo dietro al bancone, dove trovai Dalya ad aspettarmi. Le sue mani poggiate sui fianchi mi fecero capire che volesse chiedermi qualcosa.
<<John Taylor, non so chi sia o cosa faccia, ma mi ha lasciato il biglietto da visita per poterlo contattare>> anticipai la risposta alla domanda che ero sicura mi avrebbe rivolto.
Accigliò lo sguardo fissandomi per un po' e poi prese il cellulare dalla tasca del grembiule, approfittando di quell'attimo di riposo reso possibile dalla band che aveva ripreso ad esibirsi e dalla confusione che iniziava a diminuire. La vidi digitare qualcosa molto velocemente e scorrere col pollice sullo schermo, mentre io preparavo i cocktail delle ultime comande portatemi da Viky. Erano le comande più ordinate e femminili che avessi mai visto, non solo per la sua scrittura estremamente leggibile, ma anche per il taccuino rosa a righe su cui erano appuntate. Tutto di quella ragazza sapeva di rosa, unicorni e fiori.
<<John Taylor, rappresentate della casa discografica Young Generation>> lesse.
Mi girai di scatto e la guardai con gli occhi sgranati. Lasciai cadere il ghiaccio dentro i contenitori ancor prima di inserirlo nei bicchieri e portai le mani sulle spalle della mia amica, che mi guardò come se fossi impazzita. Era bastato il nome di quella casa discografica a farmi salire i brividi lungo tutte le braccia. Non poteva essere vero.
<<Dalya...è una delle case discografiche più importanti di Londra!>>
Guardò il suo cellulare, poi riportò lo sguardo su di me e continuò a fare gli stessi movimenti orbitali per qualche altro secondo.
<<Aspetta. Cosa faceva il tipo di una casa discografica così importante qui dentro? Credi che quei tre c'entrino qualcosa?>> Lanciò uno sguardo leggermente disgustato ai tre ragazzi ancora impegnati nella loro esibizione. Non erano evidentemente di suo gradimento.
Erano ragazzi in gamba, ma non sembravano appartenere ad una casa discografica così imponente. Se così fosse stato, certamente si sarebbe sentito parlare di loro in giro, avrebbero avuto degli album, un tour almeno nel Regno Unito.
<<Comunque qui il discorso è un altro>> scosse la testa come a risvegliarsi da un pensiero, poi
mi mise le mani sulle spalle e mi impose di guardarla dritta negli occhi, che sembravano avere un bagliore diverso dal solito. <<Ivory, tu domani chiamerai quest'uomo e gli chiederai cosa volesse dirti stasera, okay?>>
La sua, più che come una domanda, suonò come un'imposizione, ma i miei pensieri iniziarono a prendere una piega negativa.
<<E se volesse altro? Non so, non credo voglia me per cose che riguardino la casa discografica.>>
<<Ivory, non ti sto dicendo di sognare in grande o di crearti false illusioni. Ti sto solo dicendo di chiamargli e informarti, tutto qui. Tesoro, sei stata immensa stasera, incredibile. Hai visto la gente come ti guardava? E se questa fosse l'opportunità che hai sempre aspettato?>> I suoi occhi verdi si fecero più intensi su di me.
Aveva ragione. Non volevo illudermi e pensare che mi avesse lasciato quel bigliettino perché avesse visto qualcosa che valesse la pena scoprire in me, ma la mia mente da sognatrice non poteva far altro che pensare anche ad una possibilità del genere. Era proprio quello che mi stava preoccupando esageratamente: l'idea di essere schiacciata dai miei sogni.
Dalya scappò di nuovo all'esterno ed io finii di preparare quei cocktail che avevano perso anche troppo tempo ad uscire. Non potevo farmi frenare dall'ansia per qualcosa che ancora non avevo neanche fatto, ma al momento l'unico modo per tranquillizzarmi era bloccare completamente i pensieri e distrarmi.
La serata si concluse circa un'ora dopo. Una volta liberatasi la sala, aiutai Dalya e Viky a sistemare i tavoli e le sedie, e a ripulire a terra. Presi poi la mia giacca di jeans, tirai fuori le chiavi della macchina dal mio zaino e uscii dal pub seguita dalla mia amica.
<<Torni con me a casa o hai la macchina?>> le chiesi.
<<Ho la macchina>> la indicò qualche posto più avanti rispetto alla mia. <<Mi raccomando per domani>> mi rivolse uno sguardo di avvertimento più da mamma che da amica, facendo ancora riferimento alla telefonata.
Alzai gli occhi al cielo.
<<Sì sì, non preoccuparti.>>
La salutai e salii in macchina.

Erano quasi le tre del mattino, il solito orario di ritirata del sabato sera. Non che le altre sere tornassi presto, ma non più tardi di mezzanotte. Le luci della città ancora sveglia si susseguivano davanti a me, i grandi grattaceli del centro erano tutti illuminati e probabilmente lo sarebbero stati ancora per qualche ora. Era uno spettacolo che vedevo spesso, ma che non mi stancava mai. Avevo sempre vissuto a Londra e non riuscivo a smettere di amarla ogni giorno di più. Tutti ne parlavano come la città del parlamento, sede della più importante monarchia del mondo, del Big Bang, della London Eye, del Tower Bridge e della sua panoramica vista sul Tamigi, ma Londra era più di tutto ciò. Londra era i vicoletti che separavano i grandi palazzi in cui i ragazzi nascondevano i loro baci, i parchi pieni di gente che si esibiva nelle più disparate performance, la signora che ogni mattina si svegliava all'alba e iniziava ad annaffiare il giardinetto della sua villetta inglese salutando chiunque passasse, i ragazzi che andavano in skate sui marciapiedi facendo puntualmente arrabbiare qualcuno, la ragazza con le cuffiette che passeggiava sulla riva del Tamigi con un frappuccino Starbucks fra le mani e il cappuccio alzato anche con il sole alto nel cielo per nascondere i suoi pensieri da occhi troppo indiscreti, la nebbia che copriva i tetti durante tutta la stagione invernale. Londra era ciò che si poteva vivere camminando per le strade giorno dopo giorno e che non smetteva mai di sorprenderti. E che non sapevo cosa ancora mi avrebbe riservato.

Frantumi D'AvorioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora