1) La Collegiale

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Chi sono oggi?  Sono una donna realizzata, una madre orgogliosa dei suoi figli, una persona che sta imparando a far pace coi suoi demoni e il suo passato. Tutti abbiamo dei demoni che ci scavano dentro, nel cuore fino in fondo all'anima e te la fanno sanguinare. Ho imparato troppo presto la parola dolore e tardi la parola serenità.  Il dolore non sempre è sanabile. Ci sono volte che diventa così radicato e profondo  che non basta una vita intera ad eliminarlo. Puoi coprirlo, nasconderlo, mascherarlo, puoi far finta di non vederlo, ma c'è e rimane dentro di te,  diventa una parte del tuo essere,  certo la parte più cupa e grigia, ma c'è. Per non vederlo impari a pensare al contrario di ciò che lui, il dolore ti suggerisce di guardare e agire. Con forza e ostinazione impari che lui è il più grande dei bugiardi perché tutto ciò che guardi coi suoi occhi è nero, pesante, colmo di disperazione mentre tu vuoi i colori ed andare avanti. Vuoi essere come gli altri e riuscire a vedere i colori, le sfumature  o ciò che comunemente si definisce con la parola serenità.  Quando ero piccola  il mio stato di normalità era già distorto rispetto agli altri.  Se gli altri avevano una casa, una madre e un padre io avevo un orfanotrofio,  dieci suore e una trentina di sciagurate come me. Stanzoni freddi e immensi, con pareti bianche e pavimenti in pietra grigi. Le collegiali, le bambine del collegio: così ci chiamavano a scuola le altre bambine. Ci assomigliavamo tutte nei nostri grembiulini e coi nostri capelli corti, tagliati a tutte allo stesso modo. La nostra stanza era un enorme stanzone con dieci o dodici letti, li per noi piccole donne la giornata iniziava con la squillante voce della suora che ci svegliava e ricordava i nostri doveri.  Alzarci, lavarci, rifarci il letto, spolverare, scopre e lavare a terra e ovviamente pulire i bagni, mettersi in fila, fermarsi davanti alla statua della Madonna al piano di sotto, farsi il segno della croce (come brave bambine), proseguire infilarsi il grembiule e scendere in refettorio per fare colazione. Ovviamente nessuna di noi si aspettava latte e cioccolato con biscotti e succo d'arancia.  La nostra normalità prevedeva tazzoni con latte bollente e orzo,  una fetta di pane al burro e, la domenica invece del burro una barretta di cioccolato. Ovviamente se eravamo state brave. Il concetto di "brave bambine" in orfanotrofio era anch'esso strano,  ma questo l'ho capito con 30 anni di ritardo. Le brave bambine ubbidiscono,  stanno zitte, non piangono, non rispondono, non si lamentano, non contraddicono, non chiedono regali, pregano, si ricordano di dire il rosario tutti i giorni e Ovviamente ringraziano Dio per ciò che hanno perché esiste sempre chi sta peggio. A quel tempo non mi era chiaro se fossi o meno brava, certo è che i modelli di riferimento  che ci venivano proposti erano complicati da accettare, seguire e imitare. Ogni pomeriggio negli stanzoni dove facevamo i compiti e la sera rigorosamente sveglie e sorridenti in cappella, ci parlavano e descrivevano la vita e i sacrifici dei santi. Ci sottolineavano la umiltà, il loro scegliere la povertà, la rettitudine, il dolore visto come avvicinarsi a Dio. Il loro premio più ambito? Ricevere le stimmate. Ricordo che la cosa da un lato mi terrorizzava (cercavo di immaginare su me stessa quel premio e non riuscivo a gioire) dall'altro mi auto convincevo che funzionava così, era normale. Il non accettare di essere come loro avrebbe voluto dire: finire all'inferno, nelle mani del diavolo, far piangere Gesù e essere cattiva. Quanta paura mi faceva questa parola. Se ad un bimbo qualsiasi gli si parla del lupo per farsi obbedire a me bastava sentire la frase "sei una bimba cattiva" per togliermi il sonno e farmi recitare rosari e preghiere per scongiurare tale abominio. Quante lacrime ho versato in quella cappella, davanti a statue e crocefissi. Lì mi interrogavo sulla mia bontà, umiltà, se fossi abbastanza grata (non capivo esattamente di cosa. Essere grata di stare in collegio anziché a casa? O essere grata semplicemente di essere viva?) , se fossi come ci ripetevano le suore una buona candidata per la santità. In quegli stanzoni infatti essere brave equivaleva a diventare come i santi di cui ci parlavano. È così anziché favole e giochi, tutte noi bimbe e ragazze dai cinque ai sedici anni ascoltavamo discorsi sul porgere l'altra guancia, sull' abbracciare sorella povertà, essere liete di sacrifici e sofferenze perché tutto ciò non era altro che l'autostrada per essere buone, sante e amate da Gesù. Ed io? Chi ero io in tutto questo? La piccola me era una bimba bassina, magrolina di cinque anni (con alle spalle altri tre anni di orfanotrofio) che cercava con tutta sé stessa di adempiere ai suoi doveri e di pregare per la sua santità. Ovviamente i miei pensieri ribelli come : mangiare un gelato, diventare come le mie compagne che avevano una casa con mamma e papà, avere una cameretta tutta mia piena di nastri per i miei capelli lunghi, avere vestiti colorati anziché il grembiule e tante, tantissime barrette di cioccolato. Ecco tutto questo veniva taciuto e ben nascosto al punto che mi chiedevo se qualche santo si prendesse la briga di riferire alle suore ciò che pensavo, perché si sa i santi sanno e vedono tutto.

Il Coraggio Di Fidarmi Di MeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora