4) Le Punizioni

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Negli otto anni di orfanatrofio tante cose mi erano sconosciute, tante altre le vedevo troppo lontane da me, per molte altre non mi ritenevo all'altezza. Questa sensazione di "non essere abbastanza" mi ha accompagnata per lunghissimo tempo, non ho chiaro quando è nata in me ma sicuramente ancora oggi, a distanza di anni faccio fatica a sradicarla totalmente.

Ho sempre puntato sull'intelligenza, bravura degli altri, non mi sono mai curata della mia.

Se riguardo con occhi critici "la piccola collegiale" stranamente la vedo piena disperanze, di buoni propositi, convinta che tutto sarebbe migliorato, certa di futuro roseo. Capisco solo adesso che sono stati questi pensieri a spingere la piccola me, a non mollare. Ogni regola o abitudine crudele di quel posto le guardavo e vivevo come se fossi "un'ospite temporaneo", avevo la certezza assoluta nel profondo che qualcosa di estremamente meraviglioso mi aspettava là, fuori da quelle mura.


Di tanto in tanto c'erano situazioni che facevano vacillare questi miei pensieri, ad esempio quando venivo punita. Il concetto di punizione per le suore del nostro orfanatrofio, era spartano e crudele. Oggi da madre non mi sognerei di infliggere mai nessuna di quelle punizioni.

Sono passati trent'anni eppure le ricordo ancora tutte, sono lì in un cassetto della memoria, un cassetto che puoi chiudere e non guardare ma esiste per non dimenticare. Le punizioni venivano impartite per "plasmarci" così come amava ripetere una delle suore più anziane dell'orfanatrofio.

Se litigavamo tra di noi o non rispettavamo gli orari venivamo messe a guardare il muro a braccia ben alzate per un'ora. Ricordo ancora il dolore che provavo, il formicolio alle braccia, il sentirle pesanti. Le prime volte le abbassavo, ma quando la punizione veniva aggravata dal mettermi in ginocchio e continuare a tenere in alto le braccia, ho imparato a resistere.

Con il passare del tempo in quel posto mi è diventato subito chiaro di non disobbedire, evitare il più possibile le punizioni e se proprio le ricevevo, di non farmele raddoppiare. Se qualcuna di noi si rifiutava di mangiare tutto, le veniva raddoppiato il pasto, o le veniva riproposto per le volte successive. Questa era una di quelle punizioni per noi "lieve" a cui avevamo trovato subito rimedio. Poiché eravamo in tante e c'erano solo due suore a controllare i pasti, ci scambiavamo i piatti. Quindi ad esempio se per primo ci davano la pasta in brodo che per me era "accettabile" e per secondo c'era un formaggio verdognolo che per me era "immangiabile", la soluzione era sedermi vicino a bambine che accettavano di mangiare la mia porzione di formaggio mentre io prendevo la loro pastina in brodo.

Sicuramente, senza saperlo, le suore avevano fatto nascere in noi una forte unione, spirito di squadra, problem solving e furbizia. Tutto pur di sopravvivere.

Questa punizione del cibo poteva diventare pesante e estremamente ingestibile quando non riuscivamo a sederci nel posto strategico. Quando accadeva, era drammatico!

Ti ritrovavi a dover mangiare qualcosa che non ti piaceva e che non riuscivi a mandar giù nemmeno sforzandoti. Alcune volte capitava che vomitavamo, e lì avveniva il peggio! Le suore ti costringevano a mangiare il tuo stesso vomito, ti spingevano la testa e ti arrivavano colpi su colpi fin quando stanca ed esausta non cedevi.

Quelle poche volte che mi è capitato mi sentivo umiliata, un niente, speravo che finisse al più presto e maledicevo il giorno di essere nata. Era in assoluto la punizione che detestavo di più, quella che mi lasciava il segno per giorni e settimane, quella che creava vuoti oscuri dentro di me, che mi lasciava nell'assoluto silenzio per settimane.

Rispetto a queste tre punizioni le botte erano il minimo per noi. Certo facevano male, lasciavano i lividi, ma erano lividi fisici che sparivano. Come reagivano le suore davanti al mio mutismo lungo settimane? Con l'indifferenza o beffeggiandosi di me. "Hai ripreso col silenzio? Vabbè prima o poi parlerai!" Tutto sembrava inutile. Altre reagivano con urla, con vere e proprie crisi di panico o isteriche. La loro reazione era sempre la stessa: l'indifferenza.

Alle volte quando si parla di istituti lager, si pensa sempre che esistano lontani, in altri paesi. La gente è come se rifiutasse il pensiero che questi luoghi esistevano qui, in Italia, sotto i loro occhi. Mi è capitato tempo fa di raccontare la mia esperienza, molta gente non credeva, si rifiutava di accettare questa realtà. Certo, mi rendo conto che fa male, accettare che nel proprio Paese possano essere accadute cose simili, ma è giusto per noi "piccole collegiali" far emergere il nostro vissuto e avere finalmente voce.

Il Coraggio Di Fidarmi Di MeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora