IL CALVARIO (prima parte)

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Iniziavo a sentimi persa e scoraggiata era come essere sola in una radura immensa, mi giravo e intorno a me vedevo il vuoto, le persone stavano scappando ed ormai erano tutti troppo lontani per sentire la mia voce era un vero e proprio incubo.

Il medico di famiglia non sapeva piu come aiutarmi, venivo trattata con leggerezza e superficialità, poi un giorno mi sentii fare tutto un ragionamento particolare, dove affermava che dovevo capire che la mia situazione dipendeva da me, secondo lui, era come quando si viene schiaffeggiati, non tutti provano lo stesso dolore e forse io, accentuavo le cose, dovevo semplicemente cercare di reagire uscire fare sport.
Rimasi male.

Avrei voluto dirgli che quelle parole mi stavano affossando, mi mettevano una colpa che non avevo sulle spalle.
Avrei voluto dirgli che il dolore che provavo mi mangiava i muscoli, i tendini, ogni fibra nervosa.
Avrei voluto dirgli di indossare le mie scarpe, prima di parlare come se le parole non avessero un peso.
Gli avrei prestato il mio corpo, solo un giorno della sua vita, per capire cosa voleva dire, svegliarsi la mattina come se si fosse caduti dal quinto piano di un palazzo, affrontare le giornate con  dei dolori lancinanti in tutto il corpo, una stanchezza costante e la testa che sembra esplodere.

Glielo avrei prestato volentieri, per apprezzare il valore di un giorno senza dolore.
Per apprezzare la sua vita e capire il significato di empatia.
A differenza sua, io purtroppo non potevo uscire dalla porta scordandomi tutto, come avrebbe certamente fatto lui quella sera, tornando a casa dalla sua famiglia.

Spesso diamo per scontato di avere
due gambe, due polmoni, due braccia e un cuore perché fanno parte del nostro corpo e sono nostri.
Ma una mattina ti ritrovi a strisciare per camminare, ti senti a pezzi, distrutta e nonostante tutto devi continuare a vivere.

Iniziò cosi, il mio pellegrinaggio tra un dottore e l'altro, tra un esame medico e un altro, sempre in corsa, in cerca di una diagnosi che sembrava non voler uscire.
In quel periodo avrò visitato sette, otto ospedali e visto più di venti medici. Passavo da una regione all'altra come un pendolo, l'ortopedico mi spediva dal neurologo, il neurologo dal neurochirurgo e così via fino al reumatologo, ma tutto finiva sempre solo con vaghe supposizioni.
Gli esami erano negativi, non c'erano le basi per operare e avrei dovuto imparare a convivere con il dolore.
Disperata, insieme alla mia famiglia affittai un ambulanza per recarmi nel miglior centro ospedaliero dell'alta Italia, il viaggio in macchina o in treno era ormai impossibile.
Eravamo tutti molto positivi e pieni di speranza, ma l'ospedale non sempre rispecchia tutti i medici che vi lavorano al suo interno.
500 km x 300 euro di visita e fui trattata veramente in modo pietoso.
Il grande professore che mi trovai davanti non alzò mai gli occhi dal suo computer, mi fece camminare avanti e indietro per poi dirmi che lui non poteva farmi niente. Veramente pochissimi minuti di visita, nessun dialogo zero empatia, sembrava di stare in una fabbrica, fuori uno dentro un altro.

Ora potete comprendere perché non sorrido più come prima?

Quando mi rifiuto di andare da un altro medico o fare un altro esame, vedo la perplessità negli occhi di chi mi circonda e capisco il perché, ma non sono altrettanto sicura che loro capiscano le mie motivazioni.
Una delle prime ipotesi medica che mi dissero fu quella di soffrire di una brutta lombosciatalgia destra e che sarebbe semplicemente passata con il tempo, ma visto che non successe, iniziai ad indagare per capire quale fosse la causa. 
Sono consapevole che non spetta a noi malati cercare la cura, ma credetemi che mi avvicinai prima io che l'ora alla diagnosi.
Ero io a chiedere gli esami  e le indagini da fare ma la lista era lunga, i miei sintomisi spostavano alla perfezionecon tantissime patologie dalle più conosciute alle più rare.
Ernia, piriforme, sacroeleite, artrite, spendibile, atroci, sclerosi multipla  ecc...ma ogni esame  sembrava dare esito  negativo, solitamente dovrebbe essere una buona notizia, io però tornavo a casa sempre con un senso di fallimento.

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