Un passo in più, forza.
Posso ripetermelo fino alla fine dei miei giorni, finché l'oscurità non mi prenderà, ma non lo farò. Se lo facessi so che continuerei ad averne bisogno. E non voglio.
Perché il mio dolore è anche ciò di cui ho più bisogno.
«Sarah, vieni». Quella voce. Ancora.
Muovo un passo avanti, ormai il paravento non mi copre più. «Eccomi» dico.
Lui mi guarda con con quello sguardo animalesco che detesto. I suoi occhi dall'innaturale sfumatura chiara corrono per il mio corpo, studiando il vestito nero, la scollatura profonda e la mantellina rosso sangue. Poi si spostano sul mio viso, sugli occhi glaciali cerchiati da una linea nera, le labbra cremisi, i capelli corvini raccolti sulla nuca e le ciocche che sfuggono, incorniciandomi il viso spigoloso.
Non mi disturbo a sorridere, gli occhi fissi sul pavimento in marmo.
«Vogliamo andare?». Mi porge una mano ed io ci poso la mia sopra, rassegnata. Quando varchiamo la soglia della stanza, cammino con lo sguardo sui miei piedi, quasi indifferente allo sfarzo che mi circonda. Gli interni della vecchia casa abbandonata infatti sono lussuosi, con mobili intagliati, tappeti persiani, quadri di uomini austeri, anche se i mobili sono pieni di polvere.
Scendiamo le lunghe scale, fino alla sala da pranzo. Il lungo tavolo rettangolare in mogano è stato preparato con cura, con molti posti a tavola, tovaglioli color sangue, posate d'argento, piatti di ceramica con piccoli disegni. Ma so che ci saremo solo noi.
Josh mi lascia la mano e sfila una delle sedie capotavola, poi si scosta per farmi sedere. Mi avvicino, un passo alla volta, lentamente. Mi siedo, ma non ho il coraggio di guardarlo. Fisso il piatto davanti a me. Vuoto, come i miei occhi.
Dopo, anche lui va a sedersi, dall'altro capo del tavolo, proprio davanti a me. Non riesco a vederlo perfettamente, per tutti centrotavola, ricchi di piume di pavone, rose e quant'alto, che ci sono a dividerci.
So che si sta passando una mano tra i capelli spettinati come sempre. Lo fa sempre, tutte le sere.
Poi afferra il calice del vino e io sospiro.
James, il valletto, esce dalla cucina con un enorme vassoio in mano. Lui mi ha sempre messo una certa inquietudine, a causa dello sguardo crudele che domina i suoi occhi azzurri.
Non so cosa facessero insieme lui e Josh, prima che quest'ultimo mi portasse nella casa abbandonata in campagna, lontano dal mondo e da tutti.
I due lupi di Josh fanno il loro ingresso nella stanza. Gironzolano per la sala, poi uno si avvicina al tavolo e afferra con i denti un pezzo del centrotavola di foglie.
Josh li lascia fare, come sempre, mentre insieme distruggono il povero centrotavola.
Ho un po' di timore quando fanno così, perché so che potrebbero sbranarmi, ma sono altrettanto sicura che Josh non glielo permetterebbe mai.
James si avvicina a me e scoperchia il vassoio, scoprendo un fagiano al forno. Mi rivolge un ghigno divertito e mi avvicina il vassoio in modo che io mi possa servire. So che è gentile con me solo perché glielo ha ordinato Josh, altrimenti mi avrebbe già messo due mani al collo.
Dev'essere affetto da una sorta di nanismo, i suoi arti sono più corti del tronco, ma anche se è molto più basso di me, non posso dire di non temerlo.
«No, grazie, James. Non ho fame» dico, un po' perché è vero, un po' per evitare di morire avvelenata.
Josh scatta sull'attenti, gli occhi fulminano immediatamente il povero fagiano nel vassoio. «Non dire sciocchezze, Sarah» mi riprende. «Devi mangiare».
Io, ancora una volta, non mi disturbo a fargli piacere. Non sorrido. Deve sapere che non voglio stare lì con lui. Voglio che mi riporti immediatamente a casa mia.
«Non ho fame» ripeto, secca.
Si alza e mi raggiunge. Non sa se essere arrabbiato o cercare di accontentarmi, glielo leggo negli occhi. «Allora che vorresti fare?» mi chiede, con aria di sfida.
Cercando una risposta a tono, mi torna in mente casa, la mia vera casa. Tutto quello che facevo. Anche ciò che mi annoiava, ora avrei voluto rifarlo. Le giornate passate a studiare per prendere bei voti alle verifiche, a leggere i romanzi gialli che amavo, sfogliando nella biblioteca di mia nonna tutti i libri di Agatha Christie, suonando il pianoforte nel salone di casa mia.
I miei genitori hanno una grande casa, in stile liberty, che adoravo. Loro erano sempre a lavoro ed io mi annoiavo un po'.
Il mio amato pianoforte era sempre nel salone. L'unica consolazione alla mia solitudine.
Josh continua a fissarmi, il suo sguardo si fa improvvisamente comprensivo. Quasi mortificato.
Si allontana. Non so che cosa voglia fare.
Si avvicina ad un angolo pieno di polvere e ragnatele. C'è qualcosa, un mobile rovesciato.
Lui lo afferra e, con forza innaturale, lo rimette in piedi.
Rimango a bocca aperta, letteralmente, mentre osservo il mobile, che Josh pulisce un po' con le mani e una nuvola di polvere si abbatte sul pavimento.
Scopre lentamente i tasti bianchi e neri, per poi guardarmi in attesa.
«Josh...». Non so cosa dire.
Mi alzo e raggiungo il pianoforte a lato della stanza, osservandolo sgomenta. Mi sarebbe piaciuto tanto suonarlo.
Lui sistema uno sgabello proprio davanti e mi guarda in attesa. «Suonalo, avanti» mi dice.
Poso le dita sui tasti e sorrido. È bello poter vedere qualcosa di familiare, diversamente dagli ultimi giorni.
Inizio a suonare, mi metto di impegno, tentando di ricordare le note dell'ultimo brano imparato. Volevo suonarlo per il ritorno dei miei genitori da lavoro. A fine mese sarebbero tornati. Ora mancano solo pochi giorni e non credo che tornerò.
Per un secondo mi blocco, presa dalla malinconia. Voglio tornare a casa mia.
Josh dice continuamente di amarmi, che il sentimento che prova per me è incondizionato, ma io non voglio credergli. Se mi amasse davvero mi riporterebbe lì.
Il suo sguardo interrogativo si ferma sul mio viso. «Cosa c'è ora?» mi chiede scocciato. Deve essere estenuante perdere continuamente al suo stesso gioco.
Ma non posso prendermi la colpa. «Stai solo ingannando te stesso. Ed io sono stufa delle falsità» dico, fissandolo intensamente.
«Che diavolo significa?» mi chiede lui, seccato dal mio comportamento irriverente.
«Significa che non posso continuare a credere alle tue bugie». Mi alzo e mi piazzo davanti a lui. Non farà la vittima stavolta, non con me.
«È troppo tardi per farmi cambiare idea!» gli urlo in faccia. Ho finito di subire passivamente, me ne andrò a piedi se necessario, non importa quanto lontana sia questa dannata villa da ogni centro abitato.
Lui mi guarda. È inferocito.
Faccio per voltarmi, ma Josh mi afferra, tirandomi su di peso e caricandomi in spalla, quasi fossi un sacco di patate.
Grido più volte, ma lui non mi lascia andare. Sale le scale e mi porta al piano di sopra. Arrivati in una camera da letto, mi butta sul letto a baldacchino e si dirige verso la porta. Sulla soglia si volta a guardarmi. «Se sapessi cosa c'è là fuori, ringrazieresti di trovarti qui. Questo posto è il paradiso». Detto ciò, esce, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi alzo in fretta dal letto e corro verso la porta. «Brutto bastardo!» urlo, in modo che mi senta, tentando di aprire la porta, ma scopro che l'ha chiusa a chiave.
Mi lascio cadere a terra, piangendo di rabbia. Lo odio, lo odio, lo odio.
Non gli permetterò mai più di trattarmi così. Mai più.
Io non ho mai voluto perdere tutto per lui.
Tiro un pugno alla porta, in prenda all'ira. Devo uscire. Voglio uscire.
«Come avrei potuto bruciare il paradiso? Come potrei?!» grido ancora in direzione della porta.
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Drowned In Emotions
FantasíaAntologia di storie brevi. Storie ispirate alle canzoni degli Evanescence. "Era stato solo un sogno, uno stupido incubo che aspetta di liberarsi ogni notte come fumo nero nella tua mente. Qualcosa in agguato nell'ombra. Che può scorgere qualsiasi co...