Secondo Lamento

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A diciotto anni spaccati avevo già lasciato l'orfanotrofio.

Fuga è una parola inappropriata: invece di uscire dalla porta di servizio del cinema porno accanto alla caserma e saltare sul primo 12 che fosse sferragliato lì fuori, per tornare al palazzine di fianco alla chiesa, una sera mi ricordai delle parole di un amico che avevo conosciuto sulle poltroncine di finto velluto e piscio secco dove passavo i pomeriggi. Marchettaro, prostituto, cagnetta, faceva poca differenza; era il solo modo per campare. La sola strada che conoscevo per sentire stretto addosso un po' di calore.

Momcilo: un altro rottinculo; uno come me.

– Resterai sempre il frocetto che quando gli dice bene lo piglia in bocca a due sfigati di militari. Due spiccioli. Mezzo pacchetto di Drina... Vado a Zvornik, io. C'è un mio amico. Ha preso casa, prima lavorava al motel Valhalla. Ha chiuso coi vecchi e coi ragazzini in divisa. La padrona paga bene; donne fatte o froci... A lei frega poco, basta che ci sai fare.

Invece del 12 presi il 4. In stazione, invece che all'orfanotrofio. Coi dinari che avevo sudato quel pomeriggio presi il biglietto. Saltai sul primo che passava. Quella sera sembrava che la vita stesse cambiando. Entrava un'aria strana nei polmoni, mentre poggiavo il culo sul divanetto della carrozza. Il velluto aveva la stessa pezza lercia delle poltroncine del Sirion. Eppure, tutto sembrava così diverso.

Sul binario della stazione di Zvornik, due ore dopo, entrai nel bar e chiesi una Radivizza. Me lo leggevi in faccia che avevo diciott'anni. Te lo gridavo in faccia che ero frocia. E che mi piaceva. Il barista mi allungò il bicchierino. Non battè ciglio. Non fece mezza domanda. E quando gli chiesi quanto ci sarebbe voluto per arrivare al Valhalla, fu gentile.

– È fuori città, sulla Sarajevo Belgrado...

– Ti ci porto io. Sto staccando...

Il tassista nascosto al tavolo nell'angolo mi pagò il bicchierino. Fece scivolare il giornale avariato che stava risfogliando e sulla porta mi fece cenno di seguirlo. Andandogli dietro pensai che avrei dovuto essere carino, magari. In fondo, se lo meritava. Quando sgommò via dal parcheggio senza chiedermi mezzo dinaro per la corsa, prima di entrare, cercai il mio riflesso nei finestrini ghiacciati delle auto parcheggiate.

Mi fissai: cos'avevo che non andava?

Sentii di nuovo che qualcosa stava cambiando. Non seppi cosa. Gli stop, sempre più lontani, di quel taxi, dovevano bastarmi: non aveva nemmeno voluto che glielo prendessi in bocca.

Vera, la proprietaria del motel, mi accolse con una mezza cordialità che sapeva di sbadigli e cuscini. Slava, avvizzita presto, come tutte le serbe. Le chiesi di Momcilo.

– Ha fatto perdere la testa a un dottorino; l'ha seguito a Spalato, mi sa.

Mi allungò una chiave; la dodici.

Monocorde, la voce venne fuori con le regole della casa. Puttane e froci - disse proprio così - pagavano in anticipo, al mese. Una settimana bastava per mettere assieme i dinari. Potevo scegliere quando accettare clienti: ti prepari, scendi in saletta, ti fai scegliere. Non potevo decidere io, chi. Il cliente sceglieva; non potevo rifiutare. Tre, quattro giorni fatti bene e ti paghi la stanza. Il resto era mio.

Le allungai il documento. Formalità. Che avessi appena diciotto anni non sembrò fregargliene. Perse qualche secondo in più sulla riga del nome, invece. E su quella subito sopra.

– Hai un musetto da croata, Ibrahim...

Il cognome, forse era solo per il cognome.

– Mia madre: era bosgnacca.

Con un nome del genere, mentire non aveva senso.

La carezza che mi fece aveva un sapore strano. Sapeva di una tenerezza malata.

– Le bastardelle come te piacciono...

Stava cambiando davvero, l'aria. Assieme a lei la Storia.

E non perchè la guerra stesse arrivando a sfondare la porta. Non era la guerra: in quei primi giorni ancora non potevo saperlo. Era il modo in cui mi scopavano i clienti.

C'erano mille dettagli, da quando ero arrivato a Zvornik. Il tassista che non aveva chiesto nemmeno un pompino di mancia. La carezza di Vera. Il modo in cui la maggior parte dei clienti - quasi tutti serbi - mi trattava, appena la Padrona spiegava loro che ero una bestiolina strana.

Lo crederesti? Madre bosgnacca e padre croato.

Ti accorgevi subito della luce che gli si accendeva negli occhi, mentre ti scivolavano addosso. Non erano occhi di chi sceglie un corpo per sentirsi sporco. L'unica cosa che volevano era far sentire sporco te. Ti avrebbero pisciato nel cuore, se avessero potuto.

L'aria nuova che soffiava iniziava a piacermi sempre meno. Il respiro cominciava a mancarmi. E non erano le mani al collo del lupo di turno; erano gli occhi di uomini, uomini, come me, come quello che mi serrava l'aria. Tutti uguali.

Sarei scappato via. Di notte, senza dire una parola. Mi fermavo ogni volta sulla soglia, con le scarpe ancora slacciate: quelle pareti, la carta da parati che avevo cominciato a fissare, ogni volta che fuggivo da quegli occhi, mi faceva schifo. Ma quel mondo, fuori, mi graffiava addosso brividi peggiori. Perchè doveva essere pieno di migliaia di occhi identici a quelli, lì fuori.

Un bordello non è l'Inferno... è solo il mondo chiuso in quattro mura.

Chi è che l'aveva detto?

Non lo so; un genio.

Le nuove labbra di Ibrahim Josic - Archology 0.004Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora