Padre Milan aspettò che un paio di passamontagna tornassero dal turno di guardia.
Lo accompagnarono loro a prendermi. Mi sollevarono dalle ascelle.
Non avevo nemmeno la forza di piangere.
Non guardavo loro; cercavo quel prete, i suoi passi. Pregavo non stesse seguendo me, pregavo che quei due volessero soltanto divertirsi. E finirmi come gli sembrava più comodo.
Mi sbatterono per terra. Accanto ad un termosifone.
Dalla porta, Padre Milan annuì.
Dalla palestra tornarono le urla.
Nel corridoio cominciò la sfilata dei corpi riempiti a forza la sera prima. Facevano posto a quelli nuovi. Nuovi grembi da riempire. Senza che nessuno si fosse nemmeno preso la briga di pulire il parquet del piscio, del sangue, delle schegge di cranio.
Il prete fece due passi di lato nella stanza. Per lasciare che potessi gustarmi lo spettacolo: bambole impazzite trascinate sul pavimento per capelli, spinte a calci. O ammassate sul parquet, sotto il canestro. Schiacciate per terra, fottute a forza. Come la sera prima, come il giorno dopo. Ad una che si dimenava troppo, uno col passamontagna sparò alla nuca. Non si accorse che quello che le si premeva dentro non aveva finito. Quell'altro andò avanti senza protestare. Nemmeno per il sangue che gli era schizzato in faccia, in bocca.
Padre Milan richiuse la porta. Si avvicinò con una catena. Ed un collare a strozzo. Mi calzò il cappio. Continuava a fissarmi. Aveva gesti di una grazia malata. Conosceva tenerezze che mi fecero terrore. Molto più di quello che avevo visto.
– Hqraehin... Per la faccia nera che ha Notte, sapevo che ti avrei incontrato. Nahemah ha mantenuto la sua parola.
Tremai di dolore. Quelle parole mi si infilarono sotto pelle come ami. E tirarono.
Lettere, sillabe sconosciute.
Acide.
Acido sotto pelle.
La sacralità di ogni suo respiro. La liturgia dei gesti con cui cominciò a spogliarsi. L'estasi con cui iniziò a spogliare me.
Ami sotto la pelle.
Ardiglioni ancorati che si facevano strada.
– Nahemah sia lodata! Finalmente sei qui, Hqraehin: la creatura da consacrare.
Mi spinse sulle piastrelle luride. Si spinse dentro di me.
Non era il freddo a gelarmi la schiena.
Mi prese senza smettere di guardarmi negli occhi. Mi prese con una dolcezza che non avevo mai conosciuto prima. Intensa, umida dei suoi occhi lucidi. Umida di baci.
Mi riempì.
Mi sembrò volesse passarmi da parte a parte. Senza smettere di fissarmi. Senza smettere di recitare sillabe che non conoscevo. Senza smettere di lasciarmi rotolare in bocca, dai baci, formule dimenticate, invocazioni malate. E quel fiato che sapeva di desiderio.
Quando mi scoppiò dentro, le sue carezze mi bruciarono il viso. Si portarono appresso, attaccate ai palmi, la pelle. Mi sfigurava, ogni volta che i polpastrelli mi sfioravano. E il dolore era quello di un frutto che si spella, che si strappa di dosso carne viva.
Non ebbi il tempo nemmeno di pulirmi. Sganciò la catena dal radiatore e mi tirò piano, dietro ogni passo.
Ogni demonio ha cani. E lunghe catene.
Voleva che vedessi ogni singolo metro quadro di quell'inferno che si era inventato. Voleva che vedessi il suo regno. Le schiere di diavoli senza faccia che comandava. Le coppie di occhi feroci e di guanti che di umano non avevano più nulla.
Mi trascinò a guardare le porte spalancate sul corridoio.
Nella stanza accanto alla mia rividi i tre che erano arrivati con me, sulla jeep. Si confondevano coi materassi e coi cumuli di divise sporche. Cose rotte, sporche, gettate alla rinfusa. E poi le altre porte. Altri corpi buttati per terra. Ancora caldi.
I respiri e le urla.
I passamontagna che facevano dentro e fuori, i guanti neri che abbassavano le cerniere o le ritiravano su. Le mimetiche che si muovevano su cose che non facevano più un fiato. Due, tre, cinque. Aspettavano il turno. Come dal salumiere, dal barbiere, dal dottore. Ci si scaricavano dentro. Svuotavano, vomitavano via tutto in quelle cose che quasi non sapevano più respirare.
– Saranno tuoi, un giorno. C'era bisogno di una madre, per questi figli. E ti ho trovata...
Hqraehin: madre di sciagure e abomini.
Questo, però, lo seppi solo dopo, molto dopo.
Prima venne il sussurro di un sì - giuro: non volevo, non sono stato io!
E il bruciore di un cazzo morto e scoppiato.
E il dolore di vita nuova, al suo posto.
Le mie nuove labbra.
Mi viene da vomitare sangue e bile quando mi scopro a sfiorare quella carne nuova. Non è tanto il contatto, a squassarmi da dentro, quanto la sincera commozione che mi piove dagli occhi al sussurro sporco che mi accorgo di sospirare.
- La mia passerina...
Sì: il mio nuovo vestito di carne.
Perdono! Sono stata io...
Padre Milan voleva fossi quello che io avevo sempre voluto essere.
E voleva fossi sua, solo sua.
Senza sporcarmi: nessuno mi avrebbe potuto sporcare. Nessuno più.
Senza che prima dovessi morire: quello che lui voleva non poteva morire. Non più, ormai.
Ora esiste solo il dolore.
Sono sveglia, di nuovo.
L'ennesima alba di un giorno uguale al precedente. Se non fosse per il dolore. Quel dolore che brucia. Brucia e ulcera la carne che nasce nuova. Sboccia fuori nel sangue. Strappando, crescendo, cambiando forma e calore. Ora esiste solo quel dolore. E quel destino d'orrore.
Io, Ibrahim Josic, frocia fatta e rinata - forse - donna, in un sudario di sozzura e dolore.
Madre a forza, per quei figli e quelle figlie dell'abominio.
Per i feti bastardi di violenza che queste belve hanno premuto a forza dentro quelle donne.
Per i figli orfani di madri portate a morire dopo averli svezzati - colpo in fronte, come bestie al macello .
Sì, adesso c'è solo dolore.
E quelle preghiere meschine.
Non le invocazioni di Milan; le mie. Milan, il mio Milan, non più padre, ormai.
Dolore e preghiere: una questione privata.
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Le nuove labbra di Ibrahim Josic - Archology 0.004
HorrorNella scomoda e terrificante cornice del primo conflitto civile nella ex Jugoslavia, la storia di un orfano che si ritrova a sperimentare, drammaticamente, gli orrori della guerra e l'Orrore, puro, semplice e cosmico, che vive negli interstizi tra q...