Terzo Lamento

34 12 29
                                    

Quando anfibi che portavano a spasso occhi odiosi come quelli sfondarono la porta della mia stanza e mi trascinarono per capelli sul cassone della jeep, ebbi paura di morire.

Tra froce ci si riconosce subito, sapete? Eravamo in quattro, lì dietro.

Uno non riusciva più a respirare dai singhiozzi. Un altro non alzava gli occhi dalla paura. L'ultimo stava a terra, la faccia gonfia, le ossa spezzate. Non fosse stato per il paio di gambe nelle calze a rete, avresti pensato a un quarto d'agnello.

Quelli che mi avevano buttato lì dietro erano occhi dietro passamontagna neri. Erano guanti di pelle. Nient'altro.

Ci scaricarono nemmeno due ore dopo in un palazzone che dalla finestra del Valhalla vedevo ogni giorno. Una palestra: lo scoprii entrandoci. Ci buttarono in un angolo. Abbaiarono a un paio di ubriachi con la faccia da contadini di tenerci sott'occhio. E di non farsi venire pruriti.

Cominciarono a fare la spola, da dentro a fuori.

Qualche altra frocia. Poi donne. Tante.

Vecchie spezzate dall'artrite e figlie di panettieri coi fiocchetti sulle gonne. Figlie di professori, sorelle di impiegati. La madre del sarto, la vicina di casa, la figlia di un collega.

Contai sessantatré teste, prima di capire che contare mi faceva paura.

Ne portarono altre, prima di serrare le porte e chiudersi dentro con noi.

C'era da spartirsi il bottino, per loro.

A noi, l'unica cosa che restava, era pregare di morire. Almeno provarci.

Sulle donne, quelli ci si buttavano a nugoli. Perchè nessuno, domani, si scoprisse innocente. Le più anziane le usavano come prove di coraggio: ci mandavano i ragazzini. Su quelle giovani ci si avventavano per togliersi sfizi covati da chissà quanto. A quelle che erano poco più che bambine, di solito andava peggio. Perchè strillavano forte e non stavano ferme.

Allora quelli pestavano duro. Di solito sparavano.

Lì, di fronte a tutte. Lì, sullo stesso pavimento dove poi avrebbero buttato un'atra.

Ci si svuotavano dentro. Dentro a tutte. Pure alle vecchie.

Almeno servite a qualcosa.

Mi chiesi a che sarei servito io.

Quando uno di loro si staccò dal gruppo, prese di peso il poveraccio di fianco a me e lo trascinò in un'altra stanza richiudendosi la porta dietro, cominciai a capire.

Tutte chiacchiere: non lo facevano per la razza. Era solo una scusa buona a non dire la verità. Con noi, con le donne, con la loro immagine allo specchio. 

Quella che scoppiava era solo voglia di sporcare. Sporcare così tanto da toglierti ogni speranza di provare a ripulire.

E le froce, ovviamente. non erano roba da sporcare in pubblico.

Le froce erano una questione privata.

Quel ragazzo non tornò. Capii che non avrei mai saputo che voce aveva. Nè come si chiamava. Mi dovette bastare un colpo di pistola fuori campo. Quello che se l'era portato riapparve tirandosi su la zip e ripulendosi le punte degli anfibi tra i capelli di una bambina che stava per terra con gli occhi aperti e nient'altro in faccia.

Poco dopo entrò nello stanzone Padre Milan.

Non aveva il passamontagna.

Non aveva la mimetica, nè gli anfibi. Non aveva i guanti.

Aveva una cappa nera. Lo chiamavano Padre. Tutti.

Anche mentre continuavano a divertirsi a turno su quelle bambole che piangevano e sputavano sangue.

Padre Milan si guardava intorno.

Benediceva.

Potevi guardarlo in faccia. Potevi guardare ogni singola ruga, ogni riflesso di luce negli occhi. Potevi vedere come tutti quei dettagli non cambiavano mai. Qualsiasi cosa vedesse. Si avvicinava alle donne per terra, sussurrava preghiere. Dispensava conforti. Si prendeva cura delle anime degli uomini in divisa e passamontagna. Dei corpi a terra gli importava poco.

Preferiva pregare per le vite che presto avrebbero cominciato ad agitarcisi lì dentro. Nel grembo violato di quelle donne.

Ecco perchè ogni volta che due paia di braccia tenevano schiacciata a terra una, con la faccia premuta a forza sul pavimento dalle suole degli anfibi di un altro, Padre Milan si inginocchiava più vicino possibile ai fianchi di quel corpo. E stringeva il polso di chi ci si stava divertendo.

Lui lo vuole...

Anche i più timidi si facevano forza. Trovavano il coraggio nei pantaloni. Oppure in una delle bottiglie gettate sulla scrivania in fondo alla palestra.

Un paio di ore dopo, Padre Milan passò dall'altra parte della palestra.

Dietro i passamontagna, gli occhi si erano fatti liquidi e il fiato era radivizza. Non c'era più coraggio, nei pantaloni. Prima di attraversare la stanza, il prete comandò a chi non avrebbe montato di guardia di andare a riposarsi: di sicuro, all'alba, ci sarebbe stato da fare, ancora.

Affettò il parquet del campo di basket tenendo dal gomito uno di quelli in divisa.

Per arrivarci addosso, comandò a gesti che si scegliessero passi lenti. Estenuanti.

Padre Milan ci squadrò. A quello che avevo buttato di fianco, quello che continuava a piangere e teneva la testa stretta tra le ginocchia, cercò il mento con la mano. Gli sollevò la testa. Era negli occhi che voleva frugarci.

– Qualcuno ci è sfuggito, ma di sicuro non hanno lasciato la città. Un paio di giorni...

Non parlava a quella ferocia, né a noi, né a me. Scrutava nei nostri occhi ma era a quello col passamontagna che parlava.

– Pensate a cose più importanti... -  E aveva gli occhi dentro i miei, in quel momento, mentre lo diceva. 

- Io ho trovato quello che cercavo.

A quell'altro bastarono le sue parole. Non abbassava nemmeno lo sguardo. Respirava piano, boccate brevi. Gli faceva schifo anche il fiato che sputavamo, di sicuro.

– Gli altri due?

Chiese a quel prete per essere sicuro di aver capito bene. Era già qualche passo distante. S'era fermato solo per aspettare che Padre Milan mi staccasse gli occhi di dosso.

– Quei due, gli altri come loro... Non servono a niente. Almeno quelle vacche là...

– Allora non perdiamo tempo a portarli qui?

Padre Milan si fermò un attimo solo.

– No, no... Altroché. Se qualcuno dovesse sfogarsi... Le bambine ci servono vive. Piene. 

Le nuove labbra di Ibrahim Josic - Archology 0.004Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora