Capitolo 5 - I Ricordi di Daniel

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Amis mi condusse all'interno dell'Accademia e attraverso gli immensi corridoi scavati nel ventre della costa rocciosa su cui era costruita Arathen Al'As. Il sibilo del mare era un'eco continua che cullava le anime raccolte in preghiera. Una nenia che ancora oggi affiora nel silenzio, riportandomi lì, nel cuore buio dell'Accademia.

Si trattava di un luogo sacro, una sala assai ampia senza alcuna finestra e nessuno degli specchi circolari che riflettevano la luce del sole nelle stanze del castello. Era un luogo di raccoglimento dove gli accoliti si recavano per riconoscere l'oscurità dentro di loro. Osservare il buio equivaleva ad osservare le proprie paure, il loro riflesso si animava tangibile e terrificante nelle tenebre.

Trovare in noi la luce del Sole era l'unica salvezza.

Quando Amis mi condusse per la prima volta in quel luogo non potei rifiutarmi di entrarvi. Mi fece inginocchiare accanto a lui, guidandomi con le mani, un tocco delicato, ma fermo, mi impediva di sottrarmi per quanta riluttanza si agitasse nel mio cuore.

Lo sentii pregare, lo faceva sottovoce, un mormorio dimesso che nel buio era l'unico punto di riferimento a cui potevo aggrapparmi. Provai a fare lo stesso, ma presto zittii incapace di parlare, l'oscurità mi mozzava il respiro. Chiusi gli occhi nel tentativo infantile di lasciarla fuori.

La preghiera di Amis si fermò. L'eco del mare diede a quell'entità amorfa e buia, una voce, un sibilare inquietante

"Raccontami cos'è accaduto questa mattina."

Quando chiuse bocca il sussurro dell'oscurità riprese a riempirmi le orecchie. Avrei fatto qualsiasi cosa per ritrovare la voce del mio precettore. Così risposi, "già gliel'hanno detto", furono parole furibonde, ma pronunciate a voce così bassa da risultare un pigolio spaventato.

"Vorrei sentire la tua versione", insistette con tale pazienza che percepii la forza della sua pazienza. Compresi che saremmo rimasti lì, in ginocchio, finché non avessi parlato.

Quanto a lungo avrei resistito?

Mi bastò tentare un'occhiata al buio intorno a me perché mi arrendessi.

"Eravamo nella Torre Bianca, stavamo facendo lezione. C'era silenzio perché eravamo concentrati per eseguire un nuovo incantesimo. Poi, un candelabro dell'altare è caduto. Mi sono spaventato, così mi sono nascosto sotto il banco. A quel punto apprendista Dumka, ha riso e poi tutti hanno riso" cacciai quelle parole in fretta e questa volta la voce uscì e picchiò le pareti, tornò a me come un lamento.

"E tu cos'hai fatto?".

"Gli ho dato un pugno."

"Mi hanno detto che vi hanno dovuti separare."

"Va bene, forse più di un pugno" sbottai a denti stretti. Me ne vergognavo, ma non abbastanza da voler sembrare pentito.

"Come mai ti sei spaventato?".

"C'era silenzio, chiunque si sarebbe spaventato."

"Eppure tu sei stato l'unico a nasconderti."

"Vuole dire anche lei che sono un codardo?"

"No. Non penso che tu sia un codardo, sarebbe troppo semplice definirti un codardo. Dietro ogni gesto c'è un volere, dietro ogni volontà una causa."

Era uno dei precetti che ci venivano insegnato. Nessuno era malvagio, una volta che se ne comprendevano le motivazioni. Io non ero malvagio. Non ero nemmeno codardo, ma tale mi sentivo, soprattutto in quel momento, mentre sbirciando il buio mi chiedevo quanto ce ne fosse già dentro di me.

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