Capitolo 18 - I ricordi di Daniel

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Sgusciai tra le volute camminando piano. Il velo caliginoso calato davanti agli occhi era frustrante. Quella cecità grigia portava con sé un senso di smarrimento incalzante, una vertigine che faceva vorticare le volute fumose e cancellava ogni contatto con la realtà.

Mi ritrovai a scacciare la nebbia con gesti nevrotici delle mani. Schivavo con sempre maggiore diffidenza le ombre che si aggiravano intorno a me, anime perse, a malapena vive. Le vedevo ovunque. Percepivo la loro follia, contagiava i miei pensieri.

Forse non sarei mai più uscito da quell'incubo. Forse ero anch'io un'ombra. Forse ero morto.

Poi, sentii qualcosa di diverso. Un suono fragoroso scosse l'aria, legno in frantumi.

Grida. Chiara, limpida e lucida paura. Tanto acuta da superare la coltre di confusione e restituire alla mia mente un'ancora.

Mi mossi svelto, costeggiando la parete più vicina, percepii sempre più chiaramente la presenza di colui a cui appartenevano le grida, ondate di terrore provenivano dalla sua direzione come una corrente contraria, mi avvinghiava e nel farlo mi respingeva. Tutto il mio corpo era teso nel tentativo di correre nella direzione opposta.

Mi obbligai ad avanzare ancora, ma dovetti rallentare, ridotto carponi dalla confusione e dalla paura. Procedevo rasente una parente, vidi una figura enorme sgusciare da una casa. Il buco nero del suo sentire era inconfondibile. Si trattava di una delle aberrazioni di Aleph. Poi un grido, sempre lo stesso.

"Ti prego, no! No! Lasciami andare!"

Mi nascosi dietro il portico di un edificio, schiacciato tra la pietra e il portone. L'ombra enorme trascinava dietro di sé un uomo, sentivo il suono delle sue mani agitarsi in cerca di un appiglio. Era vicinissimo. La sua paura si mescolava ad ondate di vergogna che provenivano dalla mia coscienza.

Quando si allontanarono mi avvicinai alla casa, il buio era un velo impenetrabile, che m'impediva di scorgere alcunché al suo interno. Non mi fermai ad indagare. Inseguii l'aberrazione, dovunque andasse, avrebbe alla fine portato alla mente di chi la controllava.

Proseguii cercando di scorgere l'ombra mastodontica dell'aberrazione. Avere un punto di riferimento mi restituì forza di volontà, ma la nebbia disorientava i miei sensi già ottusi dalla stanchezza. La realtà mi galleggiava intorno, il sudore mi ghiacciava la schiena, eppure sentivo alzarsi una febbre che mi ribolliva nelle orecchie.

I muscoli stanchi gridavano pietà, così lasciai andare pezzi dell'armatura, conservai solo la giubba di cuoio, abbandonai anche la cappa bianca, perché per quanto ne fossi legato, avevo paura che qualche folle potesse aggrapparvisi. Ne incontrai parecchi e sfuggi alle loro mani solo scattando in corse che mi spezzavano il respiro.

Ero esausto. La spalla a cui era aggrappato il fucile mi torturava con fitte profonde come pugnalate. Temevo che non sarei riuscito a sfuggire al desiderio di stendermi a terra e rimandare ogni proposito.

Quando finalmente vidi svettare nella nebbia le inferriate che cingevano il palazzo del Reggente tirai un sospiro di sollievo e ancora avrei voluto stendermi e rimandare. E ancora, resistetti.

La struttura mastodontica del palazzo del Reggente era una meraviglia dell'architettura anglosassone. O almeno, questo era ciò che avevo letto sui libri, così come avevo avuto modo di appurare dai dipinti lo ritraevano. In quel momento riuscii a stento a distinguere la facciata bianco latte tra le volute della nebbia, ma fu sufficiente perché avessi il sospetto di essere arrivato nel cuore di Londra.

Intorno a me decine di altre ombre si avvicinavano con la stessa metodica flemma della creatura che avevo tampinato. Sembravano falene attratte dalla luce, anime perse che giungevano alla destinazione del loro trapasso.

Le aberrazioni d'altronde, erano poco più di fantocci, non percepivo alcuna complessità, né autonomia, nella loro volontà emotiva. La loro mente era stritolata nella morsa del loro creatore. Avanzavano perché dovevano farlo, non badavano a nulla all'infuori di quella missione. In un certo senso erano solo morti che camminavano.

M'intrufolai attraverso il cancello aperto con il favore della nebbia, la facilità con cui ci riuscii mi trasmise un senso d'inquietudine. All'apparenza sembrava che nessuno desse importanza a chi o cosa entrasse, quasi quel luogo fosse un pozzo nero da cui niente poteva uscire una volta scivolato al suo interno.

Non riconoscevo più la creatura che avevo inseguito, si perdeva nella colonna che lentamente avanzava attraverso l'ingresso. Decine di persone venivano trascinate con la forza, i loro lamenti si sollevavano in un coro angosciante.

Presto sarebbero diventati un nuovo esercito di mostruosi schiavi.

Aleph, o chi per lui, ci aveva scatenato contro la follia del popolo per impedirci di arrivare al nuovo covo di quella mente perversa. Se il Reggente era lì da qualche parte, ancora vivo, avrei potuto fare ben poco io solo, ma non era tardi per trovare le risposte che cercavo. Erano nella biblioteca, ne ero certo, o almeno era l'unico posto in cui sarei riuscito a trovarle se ce ne fossero mai state.

Mi allontanai in cerca di un ingresso meno affollato, aggirai il palazzo e ben presto imboccai i giardini che cingevano la facciata posteriore.

Erano giardini rigogliosi. Alla luce del sole e senza nebbia dovevano apparire di un verde lussureggiante. In quel momento invece, non erano che un complesso di sagome cupe. Poggiai una mano sul manto di erba, era umida e soffice, pensai al sollievo che avrei provato stendendomi lì, avrei potuto poggiarvi la testa bollente e le guance in fiamme.

Scacciai quell'idea e mi concentrai sulle emozioni della natura. Percepii l'inquietudine che turbava la sua calma ancestrale. Qualsiasi cosa stesse accadendo l'ambiente stava reagendo con ostilità, il che di per sé voleva dire una sola cosa: la nebbia non apparteneva all'equilibrio naturale delle cose.

Mi lasciai condurre fino all'albero più alto, uno che a circa duecento passi si affacciava fino ad una finestra. Seguii la sua presenza finché non lo trovai e allora cominciai a scalare. Fu un'impresa dispendiosa, i muscoli gemevano per la fatica, ma ringraziai il fatto di non avere indosso il peso dell'armatura.

Strisciai lungo il ramo più spesso, uno che sperai potesse reggere il mio peso, finché non riuscii ad affacciarmi ad una finestra del primo piano del palazzo.


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⏰ Ultimo aggiornamento: May 21, 2023 ⏰

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