02 | COLTIVARE LO SPIRITO STUDENTESCO

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02 | COLTIVARE LO SPIRITO STUDENTESCO

Ho sempre avuto l'impressione di non c'entrare assolutamente un cazzo con il Liceo classico Giuseppe Garibaldi. 

E quando dico ciò non intendo una cosa tipo 'oddio odio la mia scuola' -perché se c'era qualcosa che mi dava vita, erano proprio le lezioni di letteratura greca e latina- ma mi riferisco di più ad uno stato di appartenenza nel senso di collettivo. Qualcosa tipo il patriottismo.

Prendiamo per esempio Lisa Molinari, mia migliore amica e compagna di banco. Lisa è stata sin dall'inizio della nostra lunghissima amicizia quello che mi viene in mente quando penso alla parola classicista (succede spesso, ve lo garantisco): studiosa, diligente, timida fino all'inverosimile, ma soprattutto secchia. Non c'era qualcosa che Lisa non sapesse e non c'era verifica alla quale andasse male. Era una enciclopedia ambulante con l'ansia cronica. 

Oppure, non lo so, parliamo anche di Fabio Cabizza. Fabio, il cui tratto distintivo era puzzare di canne già alle otto del mattino, era un comunista incallito e al quarto anno era persino stato arrestato durante una manifestazione organizzata dalla scuola, per la quale nutriva un senso di patriottismo che non conosceva limiti e che io non sono mai riuscita a spiegarmi. Quindi sì, il Garibaldi, liceo estremamente politico e pieno di comunisti, era davvero il suo posto. 

Io invece a malapena riuscivo a beccarmi la sufficienza e di politica non mi importava assolutamente niente. Non ero sulla stessa lunghezza d'onda degli altri, per essere più precisi.
Io e il mio liceo classico non c'entravamo niente l'una con l'altra e per quale assurdo motivo mi trovavo ancora là, a diciassette anni (quasi diciotto) e con una reputazione da fantasma sociale.

Okay, forse non proprio da fantasma fantasma sociale, ma afferrate il concetto, no? 
Non mi piaceva andare alle feste, che di conseguenza evitavo come la peste, e non partecipavo a nessun corso pomeridiano organizzato dalla scuola, cosa che limitava davvero il numero delle mie conoscenze all'interno dell'istituto (e non). Essere amica di Edoardo era forse una delle uniche cose che non mi rendeva completamente un soprammobile dimenticato da Dio.

Ero una persona rumorosa, la voce squillante e con tanta voglia di parlare, ma allo stesso tempo odiavo morbosamente avere l'attenzione di tutti puntata addosso, e le mani mi cominciavano a sudare al solo pensiero. Lo so, è un paradosso, ma un po' tutta la mia vita è così.

Come dicevo: mi sentivo fuori posto, come se stessi indossando scarpe della taglia sbagliata. Era come se tutti avessero un senso in quella scuola, chi per una cosa e chi per l'altra, e io fossi l'unica che non avesse la più pallida idea di cosa cazzo fare. 
Non che fosse una novità.

Era sempre stato così, e in realtà non mi lamentavo più di tanto. Le cose stavano in quella maniera e andava bene così perché, in fondo, mi piaceva crogiolarmi in quello stato di pseudo-miseria auto-indotta. L'avevo accettato, punto e basta. Quindi davvero, io non ho mai protestato e me ne sono stata al mio posto da quella-è-una-amica-di-Esposito per quattro anni. Era routine, una cosa che sapevo affrontare. 

Ovviamente, come ogni altra cosa nella mia vita anche quella mia tanta amata routine, prima o poi, era destinata ad andarsene a puttane. E a quanto pare ero finalmente giunta a quel tanto temuto poi. 

Già.

Cominciai a capire ciò il terzo giorno di scuola del mio quinto anno, un presentimento che si fece spazio sotto la mia pelle come un brivido da pre-versione. 
Era una bella mattinata, gli uccellini cinguettavano fuori dalla finestra, il cielo era blu e quello di matematica aveva già programmato una verifica per la settimana successiva. Tutto magnifico, no? No.

Tutte le cose che non ho dettoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora