Capitolo 7

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Nei film è facile urlare. È la cosa più naturale che ci sia, dopo mangiare, respirare e scopare. Lo senti crescere dentro, risalirti dallo stomaco come una bomba pronta a deflagrarti in bocca... Allora perché era così difficile?

Clara creddette di gridare, ma quel che uscì fu più simile al rantolo strozzato di un animale morente.

Un animale morente... Proprio come quello che vedeva steso nel fondo dell'armadio.

Clara incespicò all'indietro e per poco non inciampò nelle sue stesse gambe che ormai avevano la consistenza del burro fuso.

Com'è entrato lì dentro? Pensò cercando di liberare la gola dallo spavento che le pesava dentro come un lapillo ardente.

Forse è uscito da qualche fogna, o forse è fuggito dalla campagna e si è rintanato qui, ha infilato la porta nel viavai che c'era stato nei giorni del funerale e si era annidato nel suo armadio. Sembrava logico, eppure la presenza del ratto era semplicemente sbagliata. Era come guardare un maiale che svolazza in cielo o un politico con un quarto di cervello funzionante. Era fuori dalla realtà.

Perché non aveva sentito prima il suo fetore allora? Perché non l'aveva sentito muoversi? Perché, perché, perché... Poteva stare lì a darsi tutte le spiegazioni che voleva, ma la realtà non sarebbe cambiata. Quell'intera situazione era sbagliata e doveva uscirne.

Retrocesse fino alla porta accompagnata dal rumore dei denti del ratto che affondavano nella tenera carne dei suoi cuccioli. Sì, perché non c'era solo mamma ratto dentro il suo armadio, ma tutta la cucciolata. E non se l'era portata dietro: l'aveva sfornata di fresco proprio in quel momento.

Erano almeno una decina

(sono sette, sette, ti dico)

i piccoli sgorbi bianchi e glabri e ciechi che si rotolavano tra le pieghe di un vecchio giaccone che mamma ratto aveva usato come nido.

Una creaturina deforme squittì di dolore quando la madre affondò i lunghi denti sporchi nelle sue tenere carni. Filamenti di materia organica schizzarono sul giaccone e imbrattarono il muso di mamma ratto. I suoi peli erano così neri e dritti che pareva quasi un porcospino. Temeva che se l'avesse toccata – e in nome di Dio non l'avrebbe fatto nemmeno per il montepremi dell'enalotto – si sarebbe punta.

Gli occhi di mamma ratto rilucevano nel buio come goccioline di petrolio pronte a incendiarsi. Se il male aveva degli occhi, quelli dovevano essere i suoi.

Al coro degli squittii ovattati dei cuccioli si unirono quelli lamentosi di mamma ratto. Sembrava stesse intonando una litania funebre o recitando un salmo per evocare il diavolo dalle viscere della terra.

Addentò un altro cucciolo direttamente alla testa, spappolandogliela. Non li uccideva per mangiare. Sembrava ucciderli per il puro piacere di farlo. Almeno, questo era quel che Clara leggeva nel fondo di quei piccoli occhietti maligni.

Vieni anche tu, bambina, dicevano quegli occhi, vieni a dare un MORSO anche tu. Ce n'è per tutti, quaggiù.

«Jack», chiamò Clara, ma dalle sue labbra uscì solo un sibilo. Deglutì e riprovò. «JACK!»

Corse scalza lungo il corridoio passando davanti alla camera di sua madre che ancora dormiva profondamente.

Si precipitò in soggiorno e alzò le coperte dal divano.

Non c'era. Jack Tremont era sparito.

«Jack! JACK!»

Fu come aprire una doccia da cui al posto dell'acqua schizzava fuori acido solforico. Si sentiva sciogliere sotto i ripetuti getti di paura che la investivano.

Lui mi troveràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora