Capitolo 10

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Non faceva per lei e lo capì subito.

Aveva passato gli ultimi quattro giorni imbambolata davanti alla tela bianca che Jack le aveva comprato assieme ai colori e ai pennelli. Suo marito era entusiasta della proposta di Mace. Lei meno.

Dopotutto toccava a lei fare il lavoro sporco, gli altri dovevano solo aspettare.

Aveva scarabocchiato qualcosa col pennello, un ammasso di colori giallo e rossi che non volevano dire un bel niente. Aveva provato con degli occhi, da bambina disegnava sempre degli occhi sui diari di scuola, ma nemmeno quelli le riuscivano più bene.

Erano i maledetti pennelli. Faceva fatica a tenerli in mano, li sentiva strani e alieni. Tracciava un segno e il pennello già le diceva che era sbagliato. Avevano il loro modo di comunicare, i pennelli. La posizione delle setole sulla tela, il colore sbavato, la linea storta: tutto gridava «Non così, imbecille, non così!»

Se non altro cominciava a capire un po' dell'arte contemporanea, coi i tagli nelle tele e le secchiate di vernice. Erano tutte frutto dell'incazzatura, dell'incapacità di stabilire un contatto con i fottuti pennelli.

Fottuti pennelli, si disse versandosi un bicchiere d'acqua. Aveva bisogno di qualcosa di più forte, ma Jack aveva buttato via tutti gli alcolici che avevano in casa. Essere sposati con il marito perfetto aveva i suoi svantaggi.

Jack era in università e sarebbe tornato solo verso le sette. Quell'anno stava seguendo una decina di ragazzi iscritti al suo corso di scrittura creativa e visto che il semestre stava per finire aveva una pila di racconti e romanzi brevi da correggere.

Poteva uscire e andare a bersi qualcosa in un bar, che male le avrebbe fatto?

La luce di fine Maggio le avrebbe fatto male eccome. Di camminare poi non se ne parlava. Si sentiva fiacca come le avessero rimpiazzato le ossa con dell'ovatta. Avrebbe voluto accasciarsi da qualche parte e dormire, ma nemmeno questo le riusciva.

L'appartamento era una gabbia e c'era quella maledetta tela a fissarla dall'angolo dello studio, così bianca, così pura.

L'avrebbe volentieri fatta a pezzi, ma a Jack sarebbe sembrata più pazza di quanto già non fosse. Perché era questa la verità che tutti le nascondevano, no? Era pazza. Ora prendeva i sonniferi, ma presto Mace avrebbe scosso la testa dicendo qualcosa come: «No, no, non ci siamo, serve qualcosa di più pesante.»

Allora sarebbero arrivati gli psicofarmaci. E dopo quelli? Una camicia di forza, una casa di cura col giardino piena di infermieri sorridenti e vecchietti col catetere.

Non la smetteva di pensare, ecco il problema. Faceva male da quanto pensava.

Voleva uscire, ma non poteva, voleva dipingere, ma non riusciva, voleva dormire, ma non riusciva a fare nemmeno quello.

Era colpa di suo padre. Sua e di quel maledetto ratto che aveva trovato nell'armadio. Quando si svegliava nel cuore della notte, quando l'effetto dei sonniferi cominciava a scemare, poteva sentire i topi grattare negli armadi. Erano nelle pareti, nei tubi, sotto al letto, nella sua testa. Dio, erano dentro di lei!

Il rumore del bicchiere che scoppiava in una cascata di schegge la riportò alla realtà. Si era addormentata in piedi e il bicchiere le era scivolato di mano. Il suo corpo era davvero al limite.

Pulì quel che c'era da pulire e si stese sul divano fissando la tela bianca che spuntava dalla porta socchiusa dello studio. Qualcosa da bere, qualcosa che le facesse dimenticare ecco di cosa aveva bisogno. Dimenticare.


***


La lite con Jack fu del tutto gratuita e, se possibile, del tutto prevedibile. Era inevitabile che succedesse prima o poi. Lui era un uomo paziente, ma non incrollabile; lei, invece, era piuttosto intrattabile.

Era stato un commento di Jack sulla tela bianca a far scoppiare il CASO, come l'aveva ribattezzato nella sua mente.

«Wow», aveva detto, «da qualche linea di colore sei passata a una tela tutta bianca. È una nuova concezione dell'arte che non capisco o proprio ci hai rinunciato?»

Ora che ci pensava bene era una frase detta con leggerezza, eppure in quel momento le era suonata peggio di un'accusa. Era come se le stesse dicendo non solo che era un'incapace, ma che non ci provava nemmeno più a uscire dal tunnel della depressione.

Non ricordava con precisione quel che gli aveva detto, la memoria negli ultimi tempi era come una spugna vecchia e sporca che non riusciva più a trattenere l'acqua.

Quel che ricordava con chiarezza era lo sguardo di Jack. Se rimandava indietro il nastro immaginario del CASO, poteva vedere scorgere con chiarezza il momento esatto in cui, nei suoi occhi, qualcosa si era spezzato.

Ripensò al bicchiere che aveva rotto quel pomeriggio e le venne da ridere. Non credeva ai presagi e forse lo faceva a torto.

Avevano avuto discussioni in passato, ma mai tanto violente come quella. Jack non amava litigare e il più delle volte era lui a gettare la spugna: si chiudeva nel suo studio a scrivere un po' e lasciava che lei si sbollisse. Quella volta no.

La depressione era una vera e propria malattia, si diffondeva e attecchiva come qualunque altro virus e nessuno ne era completamente immune. Nel caso di Jack, il contatto prolungato con lei lo aveva logorato poco a poco.

Uno degli aspetti più dannosi della depressione è che non puoi fare a meno di pensare a te stessa: il tempo e lo spazio si ripiegano su di te, tu e solo tu diventi l'unico centro di gravità in un universo vuoto e arido. Nell'universo di Clara Davoli, però, c'era anche Jack Tremont.

Sebbene una piccola parte di lei si rendesse conto di tutto il male che gli stava facendo, non era comunque abbastanza da farla smettere. Certi giorni non gli rivolgeva la parola, altri invece pretendeva di scopare come non ci fosse un domani - per lei non c'era davvero.

Eppure non era come scopare con qualcuno che ami: era piuttosto un modo per dimenticare, per tenere la mente occupata. Era un rapporto freddo e Jack lo sapeva, ma teneva la bocca chiusa. Sopportava, ma quella sera era crollato anche lui.

Si sentiva usato e da un certo punto di vista era vero. Si sentiva stanco di reggerle il moccolo. Si sentiva stanco e basta e lei non aspettava altro.

Voleva che le facesse male, che la insultasse, che le riversasse addosso tutto il veleno che gli aveva fatto ingoiare per settimane. Non capiva da dove sgorgasse tutto quel desiderio di farsi del male, eppure non poteva farne a meno.

Con tutte le urla che si erano scambiati era un miracolo che i vicini non si fossero intromessi. Tra moglie e marito...

Dopo essersi scannati per bene, Clara era corsa fuori sbattendosi la porta alle spalle, aveva camminato per due isolati interi in una calda notte di fine Maggio e si era rintanata nel primo bar che aveva trovato, il Gipsy.

Tutto ciò che rimaneva della lite era l'eco di Jack che la mandava al diavolo. Nell'angolo buio del Gipsy, fu il diavolo ad andare da lei.

Lui mi troveràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora