capitolo 14

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Nelle nostre esistenze, c'è qualcosa d'intrinseco e terribile ma nessuno ha il coraggio di parlarne. Per questo abbiamo bisogno di qualcuno che possa provare a rendere questa consapevolezza non capace di fermarci, così come nessuno smetterà di vivere sapendo che un giorno morirà.
Questo presagio, che sentiamo spesso, almeno a me succede così, credo sia più che altro un meccanismo del nostro cervello per non renderci leggeri come palloncini ma ben piantati su questa terra.
Per una volta nella mia vita, ero riuscito a trovare una persona capace di sedare questa cosa, prima che essere due amanti eravamo due amici e il binomio tra amicizia e amore probabilmente è uno dei legami più forti che esista, forse anche più del titanio.
Ci scoprivamo giorno per giorno, ogni tratto della sua personalità, così come i suoi piccoli difetti, tipo il fatto che a casa a differenza che al lavoro fosse tutt'altro che ordinata si andavano perfettamente a intersecare con i miei e se magari un giorno ci sentivamo un po' giù l'altro sapeva come far stare meglio l'altro.
Dopo un po' che convivevamo prendemmo la decisione di adottare un micio, io ero partito con l'idea di prendere un cane però ci avevamo pensato e tra il lavoro e gli impegni probabilmente avrebbe sofferto, quindi optammo per un gatto, di natura più autosufficiente.
Un pomeriggio andammo al gattile comunale, la volontaria ci fece fare un giro per vedere tutti gli ospiti che avevano. Ci mostrò diversi gatti, alcuni molto belli, ma entrambi fummo attratti da uno soltanto in particolare.
Aveva il pelo nero e lucido come il catrame appena riversato sulla carreggiata, una cicatrice gli attraversava il volto partendo dall'inizio delle orecchie fino a poco prima della bocca.
Sembrava aver perso la speranza che qualcuno potesse volerlo nella propria vita, proprio quell'aria triste e quasi sconsolata fu il motivo per cui decidemmo di portarlo con noi. Anche se la volontaria insistette sul fatto che potevamo vederne altri, noi fummo irremovibili.
La mattina dopo, quando ci svegliammo per andare a lavoro, lui che aveva dormito in fondo ai nostri piedi, si trovava seduto sulle zampette posteriori e miagolava quasi come se volesse darci il buongiorno.
Il nome che avevamo scelto per lui era Sinbad, come il marinaio ne Le mille e una notte.
Capitava spesso che mentre stavo leggendo in poltrona, si accomodasse sulle mie ginocchia oppure che mentre lei stesse dipingendo lui strusciasse la sua testolina contro le sue gambe in segno d'affetto.
Con il tempo quell'aria triste che avevamo notato il primo giorno al gattile scomparve, tornò ad avere la voglia di vivere e giocare di un cucciolo.
Certo non mancarono anche i problemi, come quella volta che rincasammo e il maledetto aveva deciso di usare la poltrona e il divano come tira graffi o come quando sul davanzale della finestra si posò un uccellino, lui dopo un balzo lo prese tra i denti e per riuscire a toglierlo dalle sue grinfie ci volle parecchio, rimediammo anche qualche graffio sulle braccia.
Però nulla ci avrebbe fatto tornare sui nostri passi, Sinbad era uno di famiglia e in quale famiglia ogni tanto non c'è qualche screzio.

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