Ricordi

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Avevo otto anni, più o meno.
Ricordo ancora perfettamente quel giorno, come fosse ieri.

Pioveva ed io sentivo le gocce battere su qualcosa di latta. Forse un vecchio secchio. Lì tutto era vecchio: gli oggetti da cucina, i pochi mobili che arredavano la casa in misero vecchio legno marcio, con buchi ovunque ed un tetto che faceva piovere dentro qua e là.

Mio padre mi aveva portata in quel posto anni prima, lasciandomi quasi sempre da sola, con pochi stracci e ancor meno cibo. Mi odiava, potevo sentirlo già allora, era più che evidente, anche se non conoscevo l'odio né da cosa scaturisse.
Sapevo solo che mio padre non mi voleva con sé. Mi urlava contro, mi picchiava, mi faceva stare a digiuno per giorni.

Ad un certo punto, quasi due anni prima, aveva iniziato ad addestrarmi. Continuava a ripetermi che ero un mostro bastardo ed ingrato, che sarei dovuta morire io al posto di mia madre ma che, dal momento che ero lì, tanto valeva che tornassi utile in qualche modo.

Mio padre faceva parte di un giro losco, non avevo mai capito esattamente di cosa. Sapevo che per vivere uccideva gente. Niente altro.

E lui non sapeva fare altro che quello.
Uccidere era tutto quello che era stato in grado di insegnarmi.
Uccidere e sopravvivere nelle situazioni più disparate e disperate.

Ricordo quella notte, ad otto anni appunto, quando tornò a casa durante un temporale.
Era infuriato per qualcosa, non so cosa, non mi raccontava mai nulla. Ma aveva bisogno di sfogarsi e se la prese con me.
Mi prese a schiaffi dopo avermi urlato contro diversi insulti, poi prese un coltello da cucina, di quelli da carne, e me lo diede.
Mi disse di scappare, che mi avrebbe inseguita, trovata ed ammazzata.
Se fossi stata brava a non lasciare tracce, invece, anche con quella pioggia, mi sarei salvata.

Corsi più veloce che potevo, i suoi occhi erano spaventosi e sapevo lo avrebbe fatto davvero.
Scivolai diverse volte ed in pochi minuti ero bagnata fino alle ossa. Piangevo silenziosamente, sperando che non mi trovasse. Non sapevo per quanto sarebbe andata avanti, non mi aveva dato un termine.
Caddi e mi sbucciai le ginocchia, non vedevo quasi dove andavo per via delle lacrime e della pioggia. I tuoni erano forti e tremendi. Urlai quando ne cadde uno nelle vicinanze e mi tappai le orecchie con le mani, acquattandomi.
Perché mio padre mi faceva questo?
Era così che crescevano tutte le bambine?
O forse ero solo io? Forse ero davvero un mostro e meritavo tutto questo?

Quando capii che mio padre mi aveva trovata e raggiunta era tardi.
Mi tirò un calcio nella schiena e mi fece volare a terra. Persi il coltello, che cadde poco più in là ed urlai ancora, cercando di rialzarmi.
Non ci riuscii, sentii una lama affondarmi nella carne, dalla spalla destra fino al fianco sinistro. E di nuovo, poco più in basso.
Ancora e ancora.
Urlai con quanto fiato avevo in gola, il dolore era insopportabile e bruciava. Bruciava la carne, bruciava nell'anima.
Fino a farmi perdere i sensi.

È strano. La gente dice che la mente umana tende a dimenticare il dolore.
Io però lo ricordo benissimo, vivido nella mia mente e non riesco a dimenticarlo in nessun modo.
Nemmeno ora, a 27 anni, mentre guardo la pioggia cadere nella notte, reduce da un ennesimo incubo che mi ha scossa nel profondo e fatta urlare nel buio del mio appartamento vuoto.

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