Fin dove si spingeva la mia memoria, non trovavo ricordo di una domenica mattina trascorsa senza la signora Gertrude Odell, la nostra anziana vicina di casa. Alle otto in punto scendevo in cucina e guardavo fuori dalla finestra in attesa che si accendesse la luce nella sua veranda. Era il nostro segnale. Significava che era pronta a ospitarmi. Appena vedevo quella luce mi precipitavo fuori dalla porta, attraversavo di corsa il giardino e salivo i gradini dietro la casetta di mattoni. Mi accoglieva sempre con un sorriso, i fini capelli bianchi ancora avvolti in minuscoli riccioli trattenuti dai becchi d'oca, addosso ancora la camicia da notte e la vestaglia a fiori dai polsi un po' sfilacciati.
«Buongiorno, tesoro» mi diceva appena mettevo piede nella sua cucina. «Oggi è una bella giornata che è appena diventata ancora più bella.»
Che ci fossero il sole o la pioggia, e persino se nel corso della notte erano caduti trenta centimetri di neve, per la signora Odell ogni giorno era splendido. Penso che in realtà fosse semplicemente felice di essersi svegliata ancora sulla faccia della terra, e non sotto.
La signora Odell viveva da sola. Aveva avuto un marito, un tempo, ma era morto da tanto, ormai. Noi due ci aiutavamo molto a vicenda: lei mi preparava il cestino del pranzo ogni mattina, prima che andassi a scuola, e io strappavo le erbacce del suo giardino e le davo una mano a portare i pesi.
La nostra colazione della domenica era la cosa che preferivo al mondo. Mentre io andavo a prendere l'argenteria e apparecchiavo due posti sulla tavola laccata di bianco accanto alla finestra della cucina, lei si muoveva un po' a fatica sul pavimento di linoleum verde, con un paio di scarpe stile nonna, sfondate e con le stringhe scompagnate, e si dava da fare a cuocere una montagna di pancakes. Poi ci sedevamo e ci godevamo il banchetto, ascoltando un'emittente religiosa alla radio. Alla signora Odell piaceva sentir cantare il coro e si sintonizzava sempre presto, perché non ce lo perdessimo. La maggior parte delle volte sentivamo la fine del sermone del giorno, declamato a voce alta da un predicatore dalla voce arrabbiata. La sensazione, ogni settimana, era che puntasse un grosso indice contro i suoi ascoltatori e impartisse una ramanzina con i fiocchi.
Una domenica, mentre mi leccavo lo sciroppo d'acero dalle dita, guardai la signora Odell. «Perché il predicatore è così arrabbiato? Sembra sempre furioso...»
Lei bevve un sorso di tè e ci pensò su per un momento. «Be', ora che lo dici, in effetti anche a me sembra un po' acido. Magari è solo stanco di ricordare alle persone che devono sempre essere gentili con gli altri.»
«Tutti i predicatori sono così acidi?» mi informai mordendo un pancake.
La signora Odell ridacchiò. «Non saprei dire se sono tutti acidi, ma certo penso che alcuni di loro hanno la tendenza a esprimersi con un po' troppa energia, certe volte.»
«Non capisco proprio perché la gente si veste bene e va in chiesa in macchina solo per sedersi sulle panche e farsi sgridare. A me sembra che sarebbe molto più facile per loro starsene a casa in pigiama a mangiare pancakes e ascoltare la sgridata alla radio, no?» La signora Odell rise talmente tanto che le vennero le lacrime agli occhi. Ma io ero seria.
Mentre tornavo a casa da scuola, il venerdì successivo, sentii levarsi tra gli alberi l'eco di un sordo martellare. Più avanti, un uomo stava conficcando un cartello nello spiazzo erboso davanti a una delle chiese del paese. Il cartello pubblicizzava una fiera di beneficenza nel fine settimana per raccogliere fondi e, stampate a vivaci lettere rosse, alla base del cartello c'erano le parole:
DIVERTIMENTO A NON FINIRE: SIETE TUTTI I BENVENUTI. Arrivata a casa, cominciai a
pensare che potevo andare a farci un giretto il sabato mattina, per vedere con i miei occhi com'era quella faccenda della chiesa. Prima di uscire di casa, il mattino dopo, mi infilai un paio di vecchi occhiali da sole e mi legai un foulard sulla testa. Grazie alle pagliacciate di mia madre, anche gli adulti del paese mi rivolgevano sguardi che stavano a metà fra il disgusto e la pietà, perciò, ogni volta che dovevo avventurarmi in città, cercavo di farlo in incognito.
La fiera ferveva di attività e io mi acquattai fra le ombre degli alberi per dare un'occhiata. La mia prima impressione fu che le torte sembravano aiutare le persone a essere gentili le une con le altre molto più di quanto non riuscisse a fare quel predicatore sempre cattivo. C'erano molti più sorrisi intorno ai tavoli dove si vendevano le torte di quanti ne avessi mai visti io tutti insieme nello stesso posto.
Anche gli uomini più irascibili, quelli che avevano le facce più severe della città, lì si scoprivano felici e sorridevano con aria un po' ebete guardando le lunghe tavolate coperte di torte, biscotti e strudel fatti in casa. Perfino il signor Krick, il proprietario della ferramenta, considerato in assoluto la persona più scontrosa del circondario, prese una torta. Sotto gli occhi attenti della minuta signora dai capelli grigi che stava dietro il banco, se la portò sotto il naso e ne annusò il profumo.
«Ida Mae,» disse con un sorriso sciocco «hai fatto un capolavoro. Questa crostata alle bacche di sambuco è stata benedetta dal buon Dio in persona. La prendo.»
Ida Mae arrossì e infilò la crostata in una scatola.
«A proposito, non preoccuparti per il chiavistello rotto della tua zanzariera» disse il signor Krick, improvvisamente gioviale. «Domattina mi fermo un attimo e te la sistemo.» Porse a Ida Mae una banconota da cinque dollari, le disse di tenere il resto e scomparve in mezzo alla folla.
Presi mentalmente nota che, se mai avessi avuto bisogno dell'aiuto di un uomo, avrei dovuto preparargli una torta. Mi chiesi anche se fosse per quello che mio padre non tornava più molto a casa. Per quanto ne sapevo, la mamma non gli aveva mai fatto una torta, neppure una volta.
Al di là dei tavoli per la vendita delle torte c'era una fila di baracconi con giochi vari, ma io li schivai di corsa appena vidi un gruppo di ragazzi della mia scuola. Rimasi a guardarli a una distanza di sicurezza. Lanciavano palle, abbattevano birilli e vincevano premi di ogni genere.
Quando ebbi visto abbastanza di quella fiera, presi una scorciatoia fra i prati e andai verso la chiesa. La porta era spalancata, perciò salii i gradini e corsi a dare un'occhiata.
L'interno era immerso nell'ombra. L'unica luce filtrava attraverso una vetrata a piombo dai colori vivaci, sulla parete di fronte all'ingresso. Oltre le file di panche di legno lucidato c'era un altare coperto da una tovaglia rosso scuro, con sopra dozzine di candele accese che brillavano all'interno di coppette di vetro.
Attenta a non fare il minimo rumore, mi incamminai lungo la navata. Tre donne erano inginocchiate nella prima fila di panche. Avevano la testa coperta da un riquadro di pizzo. Facevano scorrere tra le dita lunghe collane di perline e una di loro si dondolava avanti e indietro al ritmo di qualcosa che io non sentivo. Non sapevo proprio cosa c'entrassero le collane di perline con le preghiere, ma immaginai che ci fosse un qualche codice segreto riservato esclusivamente alle donne. Rimasi a guardare quella scena per parecchi minuti, chiedendomi se una collana di perline avesse il potere di aiutare mia madre. E continuai a farmi la stessa domanda sulla strada del ritorno.
Quando girai intorno a casa, vidi la macchina di papà posteggiata sul vialetto d'ingresso. Aprendo la porta di servizio, sentii la voce di mia madre esplodere nell'aria. «No! Vattene!»
«Dannazione, Camille, calmati. Dobbiamo parlare.»
Seguì uno scambio di parole furioso e confuso, che si concluse con un rumore di vetri infranti. Io attraversai di corsa la cucina e andai a nascondermi nel ripostiglio delle scope. Ma sentii comunque uno scalpiccio, poi le parole di mio padre tuonarono in tutta la casa.
«Camille, questa storia deve finire. Siediti e...»
«Non avvicinarti! Ti odio!» gridò la mamma.
La porta sbattuta della sua camera da letto fece vibrare tutta la casa e un attimo dopo i passi pesanti di papà risuonarono giù per le scale. Io rimasi immobile nell'oscurità del ripostiglio e, sentendolo entrare in cucina, trattenni il fiato. Quando la zanzariera si richiuse con forza, aprii la porta del ripostiglio e andai a sbirciare fuori dalla finestra. Mentre osservavo mio padre salire in auto e andarsene rombando, decisi che era il caso di sperimentare l'efficacia della preghiera.
Più tardi, quella sera, dopo che mia madre si fu addormentata sul divano, andai a frugare nel cassettone in camera sua. Cercavo il filo di perle che teneva sempre chiuso in un sacchettino di raso rosa. Presi un vecchio centrino da sotto una lampada da tavolo, tirai fuori da una scatola infilata in un cassetto una candela natalizia, quindi andai in camera mia e chiusi la porta. Mi misi il centrino in testa e lo fissai con un paio di mollette, accesi la candela e mi inginocchiai accanto alla finestra. Non ero molto sicura di ciò che dovevo fare, ma alzai gli occhi al cielo e feci scorrere le perle tra le dita finché non divennero lisce e tiepide.
«Ciao. Mi chiamo Cecelia Rose Honeycutt e abito all'831 di Tulipwood Avenue. Il predicatore alla radio ha detto che se apriamo i nostri cuori e chiediamo, saremo salvati. Per lui è una cosa molto semplice. Perciò io chiedo: per favore, potresti salvare la mia mamma? Nella sua testa c'è qualcosa che non funziona e ogni giorno è sempre peggio. E, già che ci sei, potresti salvare anche me? Nella mia, di testa, non c'è niente che non va, ma di certo un po' di aiuto quaggiù mi farebbe comodo. Farò tutto quello che dici. Grazie. Amen.»
Pregai per molte settimane, facendo passare una perla per ogni preghiera. Ogni giorno cercavo qualche segno, ma la mamma non migliorava mai.
C'erano sessantun perle nella collana di mia madre e, se non fosse successo qualcosa al più presto, mi sarei ritrovata a corto di preghiere. Un giorno mi venne in mente che era ora che mi rivolgessi direttamente a Dio. Ma ero un po' preoccupata all'idea.
Dio è come il preside della scuola, che se ne sta nel suo ufficio e parla soltanto con gli insegnanti? Penserà che sono troppo sfrontata se parlo direttamente con lui?
Comunque, benché fossi piuttosto agitata in proposito, decisi che in fondo non avevo niente da perdere, quindi proseguii e pregai fino a raggiungere l'ultima perla della collana. Ma l'estate sfumò nell'autunno, e nella mia vita non cambiò niente, a parte il colore delle foglie sugli alberi. Evidentemente, o Dio non mi aveva sentita, o aveva cose molto più importanti di cui occuparsi.
In una tiepida serata di ottobre mi sedetti all'aperto, con la schiena appoggiata al tronco di un acero. Guardavo i rami sopra di me e, mentre osservavo i raggi della luna a cavallo delle foglie ramate che si staccavano e scendevano a spirale fino a terra, riflettevo su tutte le preghiere che avevo recitato.
Dove sono andate a finire? Sono tutte ammassate in un angolo della porta di Dio, come i mucchi di foglie che si raccolgono sotto questi alberi? E un giorno Dio aprirà quella porta e sarà travolto da tutte le mie preghiere che gli cadranno addosso?
Quando rientrai in casa, pensai che avevo detto preghiere sufficienti per una vita intera, perciò buttai nella spazzatura il centrino e la candela, rimisi la collana di mia madre nel suo sacchettino di raso e me ne andai al piano di sopra a leggere un libro.
I libri divennero presto la mia vita o, forse, sarebbe più giusto dire che i libri divennero un ottimo modo per sfuggire alla mia vita. Ogni giorno facevo i compiti a casa e studiavo le lezioni fino a sapere tutto praticamente a memoria. Così, in un modo strano, per certi versi assurdo, la pazzia di mia madre mi aiutò a imparare sempre di più, finché diventai la prima della classe. Perché a ogni tazza, piattino o bicchiere che lei lanciava contro il muro, io aggiungevo un titolo all'elenco dei libri da leggere. E ogni volta che lei gridava, leggevo un'intera colonna di parole nel vocabolario. A undici anni, avevo letto una montagna di libri e conoscevo un mucchio di parole.
Quando le mie compagne di classe correvano a casa, dopo la scuola, per sfidarsi ai giochi da tavolo o truccarsi con i cosmetici delle madri, io andavo nella direzione opposta. Percorrevo i marciapiedi chiazzati di macchie d'ombra fino a raggiungere la Willoughby Public Library. Ero felice quando me ne stavo da sola, seduta sul pavimento freddo della biblioteca, in mezzo agli alti scaffali di legno, ma sarei una bugiarda se dicessi che non morivo dalla voglia di avere un'amica vera, viva, che respirasse, per parlare con lei. Per ridere con lei. Per stare, semplicemente, con lei. Non c'era giorno che non desiderassi con tutte le mie forze di sentire il rumore dei miei passi accompagnato dal ritmo di quelli di un'altra ragazza. Quando quel desiderio faceva troppo male, mi sforzavo di fingere di non avere bisogno di nessuno... neppure di una madre.
Ma la mia finzione terminò in un ventoso giorno di primavera. Avevo dodici anni. Tornavo da scuola e, quando aprii la porta di casa, fui investita da una nuvola di fumo che mi turbinò in faccia. Mollai i libri sul pavimento e mi precipitai in cucina. Sul fornello c'era una casseruola che bruciava. Tossendo tanto che pensai di soffocare, afferrai una presina, misi la pentola carbonizzata nel lavandino e spensi il fuoco. Dopo avere spalancato porte e finestre e sventolato le mani per disperdere il fumo, cominciai a guardarmi intorno per valutare i danni.
Dappertutto, sul piano cottura e sulle antine dei pensili, c'erano grumi di formaggio appiccicoso e maccheroni bruciati. Il fumo denso aveva lasciato una patina grigia sul soffitto. Mentre osservavo quel disastro e mi chiedevo come sarei mai potuta riuscire a ripulire tutto, sentii mia madre gridare come se avesse i capelli in fiamme. Schizzai su per le scale e la trovai seduta al centro del suo letto. Aveva indosso soltanto un reggiseno di pizzo rosso, la sottoveste e il suo diadema. Piangeva così forte che era difficile riconoscere la sua faccia in quella maschera gonfia e arrossata. Emanava un odore davvero strano, come di lacca per capelli, profumo Shalimar e urina messi insieme.
Mentre attraversavo la camera per avvicinarmi a lei, il cuore cominciò a battermi all'impazzata, come un uccellino che frulli le ali contro i vetri di una finestra chiusa. Strinsi le mani intorno alla colonnina del letto per non cadere. «Che cosa c'è, mamma?»
Mi fissò con un'espressione tragica. «Guarda questa» disse sollevando un album.
L'immagine che mi mostrava era una sua foto, dov'era ritratta con un sorriso divino e un abito da sera bianco. Una fascia di seta verde era drappeggiata su una spalla e fissata all'anca opposta. Sul tessuto, in caratteri scintillanti, c'era una scritta: REGINETTA DELLA CIPOLLA VIDALIA 1951. La reginetta era in piedi su una pedana rivestita di tessuto, accanto alla quale c'erano due botti di legno stracolme delle tipiche cipolle dorate che si coltivano in Georgia.
«La mia vita è tutta qui. Questa è la mia vera vita» piagnucolò mia madre, battendo il dito teso sulla fotografia. Si asciugò gli occhi, macchiandosi le guance di mascara. «Ero così bella, così giovane.»
Sapendo che i complimenti la mettevano sempre di buonumore, inspirai e le dissi: «Ma tu sei ancora bellissima, mamma».
Le labbra screpolate tremarono. «Dici davvero?»
Annuii e cercai di trovare qualcosa da dirle che la riportasse alla realtà. «Però, mamma, vincere quel concorso di bellezza non è stata la tua vita... Quello è stato solo un giorno della tua vita. La signora Odell dice che la nostra vita è come ce la costruiamo noi. Forse saresti più contenta se mettessi un po' in ordine i tuoi pensieri.»
Mi guardò con gli occhi sgranati. «Chi è la signora Odell?»
Immediatamente mi si torsero le budella e lo stomaco mi mandò fino in gola un fiotto di bile. Appoggiai la fronte alla colonnina del letto e cercai di respirare lentamente. «È la nostra vicina di casa, mamma. Abita accanto a noi, ti ricordi?»
«Il nostro vicino di casa è il colonnello Braxton Griffin, diretto discendente del generale Robert E. Lee e distinto gentiluomo del Sud.»
«No, mamma, per piacere, ascoltami. Nella casa accanto non abita nessun colonnello Griffin. È sempre stata la signora Odell la nostra vicina.» Fece una smorfia e mi guardò come se fossi io la pazza. Avevo l'orribile impressione che mia madre fosse scivolata, definitivamente, oltre il limite. Cominciò a dondolarsi da una parte all'altra, e le lacrime le rigarono le guance.
Respira, CeeCee. Respira. Qualcuno mi aiuti, per favore. Ti prego, Dio.
Mi accostai al bordo del letto, mi sedetti e le presi la mano. Sentivo a malapena la mia voce quando le dissi: «Mamma, guardami. Come mi chiamo?».
Lei smise di dondolarsi e mi fissò a lungo. La stanza era immersa nel silenzio. Solo l'orologio sul comodino ticchettava.
Deglutii a fatica. «Chi sono, mamma?»
L'espressione vacua del suo volto mi terrorizzò. Quando già stavo per correre a chiamare la signora Odell, però, notai un piccolo lampo di realtà negli occhi di mia madre.
«Mamma? Sai come mi chiamo?» «Cecelia Rose» sbottò. Poi si strinse l'album al petto, si lasciò cadere in avanti e affondò la faccia nel copriletto.
«Tu resta qui. Andrà tutto bene, mamma. Io torno subito.» Mi alzai dal letto, attraversai l'anticamera con le gambe che mi tremavano e le preparai un bagno caldo. Mentre la vasca si riempiva, tornai in camera da letto. Una alla volta, staccai le sue dita dall'album, la aiutai a scendere dal letto e la accompagnai in bagno.
Non so perché, ma mia madre si rifiutò di togliersi gli slip e il reggiseno. Io non avevo più energia per mettermi a discutere, quindi, dopo avere appallottolato qualche pezzo di carta igienica, le pulii il moccio che le colava dal naso e lasciai che si immergesse nella vasca. Poi mi sedetti sul coperchio del water e mi misi a leggere ad alta voce uno dei miei libri di Nancy Drew.
Quando finalmente le lacrime si esaurirono, la mamma mi guardò con gli occhi gonfi e cerchiati di rosso. «Nancy Drew è una tua amica? Non me la ricordo.»
Restai letteralmente a bocca aperta. Non credevo alle mie orecchie. Ero così sfinita da quella sua malattia che avrei voluto gridare. La guardai e feci segno di no con la testa. «Io non ho amiche.»
«Hai un sacco di amiche, invece» ribatté lei raccogliendo con la mano a coppa un fiocco di schiuma e poi soffiandolo via dal palmo. «Vanno e vengono da questa casa in continuazione.»
Mi esplose dentro una rabbia fremente e improvvisa. Era così potente e violenta che cominciarono a tremarmi le mani. Afferrai lo specchio appeso al gancio accanto al lavandino e glielo misi davanti alla faccia. «Come faccio ad avere delle amiche, me lo spieghi? Guarda come sei conciata.»
Le sue labbra si socchiusero quando vide il proprio riflesso e una lenta, indicibile tristezza le calò sul viso. Distolse lo sguardo e lo spostò sulla carta da parati a fiori, come se il segreto della sua vita rovinata fosse nascosto dietro un petalo appassito o una foglia.
Posai lo specchio, piena di vergogna per ciò che avevo fatto. «Scusami, mamma. Non volevo.»
Evitando di guardarmi, lei mormorò: «Nancy Drew è gelosa perché io sono una reginetta di bellezza e lei no».
Abbassai di nuovo gli occhi e ripresi a leggere.
Quando l'acqua del bagno si fu raffreddata, aiutai mia madre a uscire dalla vasca, le sfilai gli slip e il reggiseno e la asciugai. Dopo che le ebbi fatto mettere una camicia da notte, tornò nel suo letto e si addormentò prima che finissi di districarle il diadema dai capelli. Quando finalmente ci fui riuscita, lo appoggiai sul comodino e scesi in cucina.
Riempii un secchio di acqua calda e detersivo, grattai via i grumi di maccheroni al formaggio dal fornello, poi salii in piedi su una sedia e pulii anche le antine dei pensili. Per la pentola non c'era niente da fare, quindi la gettai nel secchio dell'immondizia. Una volta ripulito tutto quel disastro, mi inginocchiai sul pavimento, allungai il braccio dietro il fornello e staccai la spina dalla presa della corrente. Da quel momento mia madre avrebbe mangiato sandwich freddi, a meno che non fossi in casa io a tenerla d'occhio.
Benché cercassi sempre di nascondere a tutti i lati peggiori della malattia di mia madre, quella sera non potei fare a meno di correre fino alla porta accanto, a casa della signora Odell. Ero troppo a disagio per raccontarle le parti più imbarazzanti di ciò che era successo, ma riuscii a darle un'idea abbastanza vicina alla realtà.
La signora Odell mi strinse fra le braccia. «Oh, tesoro, la tua povera mamma è un'anima tormentata. Vuoi che vada a vedere se posso aiutarla in qualche modo?»
«Sta dormendo» le dissi, cercando di ricacciare indietro le lacrime. «Bene. Allora tu resti qui e ceni con me.»Affamata di qualsiasi cosa potesse
anche solo lontanamente ricordarmi la normalità, seguii la signora Odell per tutta la sua piccola cucina. Le stavo alle calcagna come un cagnolino, ma lei non sembrava infastidita. Parlammo di ciò che stavo imparando a scuola mentre lei preparava la cena per entrambe e poi la serviva in piatti di porcellana un po' sbeccati, e io apparecchiavo davanti al televisore, in soggiorno. Di lì a poco mi ero praticamente dimenticata della mamma e noi due mangiavamo e ridevamo insieme guardando una replica di I Love Lucy.
Dopo avere lavato i piatti, io e la signora Odell giocammo alla dama cinese finché non si fece buio, poi lei mi riaccompagnò a casa. Salì in camera a controllare mia madre e tornò dopo pochi minuti. Aveva un'espressione triste in viso. «Adesso dorme profondamente, tesoro. Magari domani andrà meglio.»
Mi diede un rapido abbraccio e se ne andò, i capelli candidi che brillavano nel buio come una luna cotonata.
Mentre me ne stavo alla finestra a guardarla allontanarsi, la verità mi si accese in testa. Non sarebbe mai andata meglio, non ci sarebbe mai stata una giornata migliore, perché non importava che giorno fosse: mia madre, Camille Sugarbaker Honeycutt, la reginetta della cipolla Vidalia 1951, era pazza.
Soffiai un alone di vapore sul vetro della finestra e vi premetti il palmo della mano. Il contatto con la superficie fredda fu stranamente confortante. Mentre guardavo il velo appannato che evaporava intorno alle mie dita mi tornò in mente Gloria.
Gloria abitava di fronte a noi, dall'altra parte della strada. Lei e la mamma erano amiche e, quando ero piccola, passavano un sacco di tempo insieme. Si facevano i capelli a vicenda imitando le acconciature delle foto che avevano visto sulle riviste e qualche volta ballavano in soggiorno mentre guardavano American Bandstand alla tv.
Quando mia madre aveva cominciato ad avere i suoi momenti, era stata lei che per prima aveva provato a parlare con mio padre.
Ricordavo il giorno in cui era successo. Io ero seduta sul prato di fianco a casa e stavo giocando con un orsacchiotto. Avevo alzato gli occhi e avevo visto, dall'altra parte della strada, Gloria che scaricava i sacchetti della spesa dalla macchina. Stavo per chiamarla e salutarla con la mano quando mio padre si era infilato nel nostro vialetto. Appena l'aveva visto, Gloria aveva attraversato in fretta la strada, i corti capelli neri che splendevano al sole.
«Carl, ho bisogno di parlarti. È importante. C'è qualcosa che non va con Camille» gli aveva detto mettendosi a braccia conserte. «Sono preoccupata per lei e ho paura per Cecelia. Vieni un attimo a casa mia, per piacere, così ne parliamo in privato. Vorrei...»
«Gloria, mi occupo io della mia famiglia» l'aveva interrotta papà, alzando una mano per fermarla. «Pensavo soltanto che...» Ma lui le aveva voltato le spalle e l'aveva piantata lì, da sola, nel vialetto di casa nostra.
Dopo quel giorno, Gloria non era stata più la stessa. Aveva cominciato a venire sempre meno da noi e alla fine aveva smesso del tutto. Mi sorrideva sempre e mi salutava ogni volta che le capitava di vedermi, ma non attraversava la strada e non mi parlava più come faceva prima. Poi, un giorno, un grosso camion verde era entrato nella via e si era infilato nel vialetto di casa sua. Alla fine di quel pomeriggio, Gloria e suo marito avevano chiuso a chiave la porta di casa ed erano partiti. Lei non era nemmeno venuta a salutare.
E adesso io ero lì, dopo tutti quegli anni, a guardare un cielo senza stelle e a pensare a quanto sarebbe stato tutto più facile se mia madre fosse stata rinchiusa in una casa di cura. A volte mi scoprivo addirittura a desiderare che fosse morta. Era orribile pensare una cosa del genere, ma non riuscivo a evitarlo. Non sto dicendo che avrei voluto vivere la mia vita su una nuvoletta rosa, passando da un'esperienza disneyana all'altra... in fondo desideravo soltanto poter vivere un'intera giornata felice, dall'inizio alla fine.
Il sabato dopo squillò il telefono e, quando andai a rispondere, una voce di donna disse: «Oh... sì... salve. Vorrei parlare con Carl».
Riconobbi la voce. Quella donna aveva chiamato diverse volte in passato. «Non è in casa. Chi parla?»
Ci fu una lunga pausa, poi la voce disse: «Non importa. Richiamerò un'altra volta». E si affrettò a riattaccare.
Più tardi, quel pomeriggio, chiamò di nuovo, e di nuovo rifiutò di lasciare un messaggio. Non più di dieci minuti dopo, sentii la macchina di mio padre che entrava nel vialetto. Mi precipitai alla porta di servizio e lo guardai scaricare dal bagagliaio sei bottiglie di birra e una valigetta.
Prima che raggiungesse l'ultimo gradino della scaletta che portava alla veranda, lo assalii: «Devi assolutamente fare qualcosa. La mamma ha bisogno di aiuto. E io...».
«Dai, CeeCee, levati di lì» bofonchiò lui spingendomi da parte.
Aveva la faccia tirata come un pugno chiuso e puzzava di liquore, sudore di ascelle e cattivo umore di tre giorni. Sapevo che quell'odore disgustoso era come un enorme cartellino rosso che mi diceva di stare alla larga, tuttavia seguii ugualmente mio padre in cucina.
«La mamma deve andare in ospedale, e lei...»
«Cristo! Adesso non posso nemmeno entrare da quella porta senza venire perseguitato?» Prese una birra, sbatté il resto del pacco da sei nel frigorifero e chiuse lo sportello con una pedata. «Ho portato tua madre a Cleveland da uno specialista, uno bravo. Quello le ha prescritto talmente tante medicine che il bagno sembrava una farmacia. E tu sai benissimo che lei non le prende, e quando lo fa non le servono un granché.»
«A Eastlake c'è un ospedale speciale dove si curano le persone malate di mente. L'ho trovato nell'elenco telefonico...»
Lui aprì la birra e rigettò rumorosamente l'apribottiglie nel cassetto. «Hai una vaga idea di quanto costerebbe? Io non fabbrico i soldi, sai?»
«Però non sei qui ogni giorno a vedere tutte le cose che fa.» Attraversai la cucina a grandi passi e spalancai lo sportello della credenza. «Questi sono gli unici piatti che ci restano, e sai perché? Perché quando la mamma dà i numeri si mette a lanciarli contro il muro. La settimana scorsa ha buttato il tostapane giù dalla scala della cantina e poi ha...»
Mio padre afferrò lo schienale di una sedia e lo strinse fino a far diventare bianche le nocche. «Nemmeno la mia vita è una passeggiata nel parco. Proprio ieri ho perso una grossa vendita. E a quanto pare saremo costretti a tirare tutti la cinghia. Non posso permettermi di mandare tua madre in ospedale.»
«Io non ce la faccio più. Se non fai ricoverare la mamma, allora manda via me.»Si piegò verso di me e sentii il suo
alito, caldo e fetido. «Tua madre ti ha mai fatto male? Ti ha mai preso a sberle
o ti ha sculacciato?» «No, però lei...» «E allora falla stare in casa quando non è in sé.» Distolse lo sguardo e cominciò a esaminare un mucchio di posta. «Se tu non fai qualcosa per la mamma, allora lo farò io. Lo dirò all'infermiera, a scuola, oppure... io... io andrò dalla polizia e... e...»
Il mento mi tremava così tanto che non riuscii neppure a finire la frase.
«E cosa credi che farà la polizia? Arresteranno tua madre per aver gettato il tostapane giù per la scala?»
Ero così furiosa che mi misi a tremare tutta. «No, però costringeranno te a fare qualcosa per la mamma.»
Mio padre strinse le labbra, che si tesero. «Ma con chi credi di parlare?»
«Sto cercando di parlare con te, ma tu non mi ascolti! Dove stai tutto il tempo? Perché vai sempre a Detroit?»
«Viaggio per lavoro, lo sai benissimo» mi rispose strappando una busta per aprirla. Ma fu il modo in cui distolse lo sguardo che mi insospettì, facendomi torcere le budella.
Inspirai forte per farmi coraggio e feci un passo avanti. «Una signora ti ha cercato al telefono, due volte, ma non mi ha detto il suo nome. E oggi non era la prima volta che chiamava. È per questo che non stai mai a casa?»
Il collo gli si riempì di chiazze rosse e mio padre mi fulminò con un'occhiata furibonda. «Ma che razza di domanda è questa?»
Io sostenni il suo sguardo e misurai la sua furia con la mia. «Hai una fidanzata, papà?»
«Sai cosa ti dico? Non so proprio perché mi prendo il disturbo di tornare ancora a casa.» Tirò fuori il portafoglio, sbatté qualche banconota sul tavolo della cucina e uscì dalla porta.
Se n'era andato, come al solito.
Nel tardo pomeriggio del giorno dopo trovai mia madre seduta sui gradini della veranda, dietro casa. Era ancora in camicia da notte e aveva i capelli ridotti a un groviglio di bigodini e becchi d'oca, risalenti alla sera prima. Teneva le ginocchia strette al petto e stava seduta tranquilla, fissando il cielo, che era delicato e fragilissimo come un pezzo di carta stagnola bruciata.
Uscii e mi sedetti di fianco a lei. Non parlammo. Ci limitammo a guardare il vento che sconquassava le nuvole grigie. Uno strano odore elettrico, come di temporale, riempiva l'aria, e quando in lontananza si udì il rumore di un tuono io mi avvicinai a lei e le toccai la mano. «Ti conviene entrare, mamma, sta per piovere.»
Lei mosse a malapena le labbra per dire: «Sto guardando quell'uccello. Lassù, in cima all'albero».
Io non riuscivo a vederlo e mi domandai se la sua immaginazione avesse ripreso a farle strani scherzi. Ma qualche istante dopo risuonarono nell'aria tre cinguettii, e un ittero alirosse si staccò dall'albero. Io e la mamma lo guardammo finché il lampo delle sue spalline rosse non scomparve. «Mi piacerebbe tanto essere un uccello.»
«Perché? A che ti servirebbe?»
Lei si voltò a guardarmi con i suoi occhi azzurri, esausti. «Se avessi le ali potrei volare fino in Georgia e riprendermi la mia vita.»
Capii che stava per piangere, quindi la presi per mano e la esortai ad alzarsi. Mentre rientravamo in cucina, mia madre sembrava pallida e barcollava leggermente. «Perché non ti riposi un pochino?» le dissi aiutandola a salire le scale per andare in camera sua. «Più tardi preparo qualcosa per cena.»
Lei si sedette sul bordo del letto, floscia come una bambola di pezza logora. Le sfilai le pantofole dai piedi e le sistemai sotto il suo comodino, ma, quando feci per toglierle i bigodini dai capelli, le sue mani volarono alla testa e mia madre cominciò a schiaffeggiare l'aria tutt'intorno, come se uno sciame di zanzare l'avesse attaccata all'improvviso.
«Che cos'hai mamma? Cosa c'è che non va?»
Lei balzò in piedi e gridò: «Ho sprecato gli anni più belli della vita. Maledetto! All'inferno! Quanto vorrei vederlo morto!».
Prese un barattolo di talco profumato dal mobile da toilette e lo scagliò contro l'anta dell'armadio. Il contenitore esplose nell'impatto, liberando nell'aria una nuvola di polvere bianca, e mi sembrò di trovarmi al centro di un'enorme palla di neve.