Capitolo 4- La festa in maschera

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"Devi assolutamente dirmi come sei finito bloccato in ascensore" sentì James ridere mentre sistemavo la scrivania della mia stanza.
Guardai il cellulare posato sul letto e mi feci scappare una risatina anch'io "Io ed il mio collega stavamo litigando" raccontai ad alta voce in modo da far arrivare la mia voce al telefono "Stavo andando dal mio capo per lamentarmi, sono entrato in ascensore e lui mi ha seguito, abbiamo iniziato a spingere più tasti insieme" mi schiarì la voce, raccontarlo ad alta voce era alquanto imbarazzante.
"Per cosa stavate litigando?".
Sospirai, effettivamente non conoscevo molto James, avevamo parlato davvero poco fino a quel momento e l'idea di raccontare di Taylor un po' mi infastidiva. Secondo la versione di Emily, io e James ci eravamo divertiti molto domenica sera -e con questo intendo un appuntamento al buio nel bagno- ma io non ricordavo nulla di ciò. Mi irritava non ricordare cosa avessi provato mentre ero con una persona, io ero uno di quelli che si viveva i momenti con i sentimenti alle stelle, mi sembrava strano non ricordare proprio nulla. L'ultima volta in cui avevo avuto una amnesia del genere era stata dopo un bacio con una ragazza che non mi piaceva affatto. Non ricordavo il suo nome, vi posso solo assicurare che solo guardandola il mio corpo provava un rifiuto repentino nei suoi confronti. Che fosse successa la stessa cosa con James? Mi sembrava impossibile: James era un ragazzo davvero carino e molto simpatico, di certo non pretendevo di innamorarmene, ma fisicamente mi sentivo abbastanza attratto da lui.
"Io e Taylor…" mi bloccai un attimo, poi scossi la testa, insomma che male c'era? Non stavo mica parlando di qualcosa di intimo e personale "Litighiamo spesso" conclusi velocemente, non mi andava di ricordare tutti i particolari e rovinarmi la serata in quel modo.
"Non posso dire di conoscerti, ma ho la strana sensazione che sia difficile per te non andare d'accordo con qualcuno, quindi deduco che ci sia qualcosa sotto".
Mi irrigidì sentendo quelle parole, la serata non sarebbe andata a gonfie vele, ecco.
Sospirai e afferrai il cellulare, tolsi il vivavoce e lo portai all'orecchio mentre mi stendevo sul mio letto.
"Ho un paio di teorie" ammisi, "La prima: lui è diventato teamleader dopo mesi lì dentro, io sono stato assunto come teamleader, probabilmente è invidioso".
"Plausibile" James ridacchiò.
"La seconda: è segretamente innamorato di me ma non riesce ad ammetterlo a se stesso" risi all'idea, Taylor mi aveva guardato in tanti modi da quando lavoravo lì dentro, ma mai con amore. Inoltre avevo notato come guardasse le nostre colleghe, era etero fino al midollo.
"La terza: un trauma dell'infanzia".
James scoppiò a ridere a crepapelle e io lo seguì contagiato dalla sua risata. Era molto piacevole parlare con lui.
"Vada per la prima" annunciò ancora ridendo.
"Si, sono d'accordo" ridacchiai annuendo. Seguì un minuto di silenzio quindi cercai un argomento di cui poter parlare: mi piaceva conversare con lui e non volevo finisse lì la telefonata.
"Quindi, vigile del fuoco?" ammiccai nonostante fossi consapevole che non potesse vedermi.
"Beh si, il mio sogno da quando ero bambino. Non mi dispiace salvare donzelle dagli ascensori".
Risi, "Le donzelle ti ringraziano".
"Invece tu? Non ho ben compreso ancora di cosa vi occupate".
Sospirai "Noleggio auto" alzai gli occhi al cielo "Affianchiamo molte società, stipuliamo contratti di noleggio a lungo termine. I nostri colleghi si occupano di contrattare, io e Taylor ci occupiamo di contratti e pratiche".
"Da come ne parli, non sembra ti piaccia ciò che fai" sembrava molto sorpreso.
"Non è male come lavoro" ammisi "E la paga è ottima, ma il mio sogno era fare il college" sospirai, quel sogno non si sarebbe mai realizzato. Dopo il diploma avevo provato a fare richiesta per svariate università, avevo ricevuto anche le borse di studio. Ero stato accettato in una università della California, i preparativi andavano a gonfie vele, mancava una settimana alla mia partenza. Ma in quella settimana tutto andò in fumo: a mia madre fu diagnosticata la Sclerosi Multipla e per quanto lei cercasse di convincermi che avrebbe trovato una soluzione e che dovevo partire per realizzare i miei sogni, io non potevo farlo. Svuotai le valigie e rimasi a casa con lei. La malattia fortunatamente non degenerava velocemente, mia madre era una roccia vivente, ma starle accanto finché potevo era diventato il mio unico sogno: per questo ho rinunciato all'università e ho cercato un lavoro, non è stato molto semplice, certo - all'inizio ero una frana in tutto e venivo licenziato in continuazione- ma almeno sono rimasto a New York con lei.
Sentì gli occhi pizzicare mentre lui mi chiedeva perché non l'avessi fatto, non mi andava di raccontare tutto questo a James.
Mi schiarì la voce "Per forza di cose non è stato il mio destino" tagliai corto e sperai che non avesse sentito la mia voce sull'orlo del pianto.
La conversazione per fortuna si spostò su argomenti più vivaci e la serata si rivelò molto coinvolgente e divertente.
"Senti" dissi ad un certo punto "Il mio capo ogni anno organizza una festa in maschera, è questo weekend e ognuno di noi può portare qualcuno" giocherellai con l'orlo della mia maglia "Vorresti venire?" chiesi, sarebbe stato un buon modo per conoscerci meglio, James mi piaceva molto.
"Oh" sembrava sorpreso dalla mia richiesta, lo immaginai con gli occhi nocciola sgranati, "Be si, non ho impegni questo weekend, quindi si, mi farebbe piacere".
Sorrisi contento, sentì un piccolo brivido sulla schiena mentre rispondevo "Perfetto, allora mi passi a prendere alle 20:00?" gli diedi il mio indirizzo e gli spiegai come poterci arrivare in pochi minuti, poi ci salutammo.
Scesi al piano di sotto e mi incamminai in cucina dove vidi mia madre cercare con tutte le sue forze di afferrare il mestolo da cucina dal tavolo, il suo braccio tremava e non accennava a muoversi più di quanto aveva già fatto. Sospirai e mi avvicinai a lei "Mamma, lo sai che puoi chiamarmi quando hai bisogno di aiuto".
"Oh, tesoro" la sua voce bassa e affaticata mi fece tremare le gambe, ripose il braccio sul ventre e si accasciò del tutto sulla sua sedia a rotelle. Odiavo vederla in quelle condizioni, ogni volta la mia mente tornava ai vecchi ricordi, a quando ero un ragazzino e giocavo con lei a calcio, o quando mi preparava la cena dopo la scuola. Ricordavo che da ragazzino amavo guardarla mentre puliva casa, la seguivo in ogni angolo del nostro appartamento e ogni tanto le davo una mano. Eravamo sempre stati noi due, due anime incatenate e inseparabili, come avrei potuto lasciarla da sola e andare all'università rischiando poi di non vederla più? Il Dottor Jersey aveva sempre ammirato la grande forza di mia madre nel non buttarsi giù anche in situazioni come quelle e ci aveva sempre assicurato che ciò l'avrebbe aiutata a vivere la sua vita più serenamente e più a lungo. Per fortuna il suo corpo reagiva splendidamente alla terapia, ma purtroppo gli anni passavano e i piccoli peggioramenti iniziavano a presentarsi sempre più spesso.
Afferrai il mestolo e poi la sua mano, la aiutai ad afferrarlo dandole poi una carezza sul dorso della mano e un bacio sulla fronte "Cosa volevi fare con questo?".
"Volevo cucinarti un bel risotto" ammise, guardò tristemente il mestolo scivolare piano dalle sue dita "Ma non credo di farcela".
"Cuciniamo insieme" proposi prima di prendere delicatamente il mestolo dalle sue mani "Risotto con cosa? Funghi? Oppure potremo provare una ricetta che ho letto su internet: carote e panna".
La guardai paziente mentre aspettavo una risposta e mi resi conto ancora una volta quanto ci assomigliassimo: i capelli castani e lisci come i miei le ricadevano morbidamente sulle spalle, gli occhi nocciola sprizzavano gioia e vivacità nonostante le sfortune della vita, la sua pelle rosa come la mia risplendeva sotto la luce bianca della cucina e le sue labbra carnose che amavo tanto sorrisero, "Panna e carote, deve essere buono".
Annuì e ricambiai il sorriso prima di spingere la sua sedia a rotelle vicino al piano da cucina. Ci aiutammo a vicenda nella preparazione e ci divertimmo a canticchiare le canzoni che passavano in radio.
Una volta pronto mangiammo in tranquillità e chiacchierammo del più e del meno, la aiutai con le posate, poi dopo aver finito la cena e ripulito la cucina la spinsi in bagno.
"Perché facciamo la doccia la sera ultimamente?" mi chiese ingenuamente mentre io riempivo la vasca con dell'acqua calda ed il suo bagnoschiuma preferito.
"Perché quando lo facciamo la mattina arrivo tardi a lavoro e il mio capo mi ha minacciato di licenziarmi" spiegai pacamente mentre controllavo la temperatura dell'acqua.
"Tesoro ma perché non me l'hai detto prima?" la sua voce rallentò sempre di più "Possiamo chiedere a tuo zio-".
La interruppi gentilmente "Mamma, l'ultima volta che hai fatto la doccia con tuo fratello ti sei lamentata per due giorni interi di quanto ti vergognassi" le ricordai ridacchiando "A me piace aiutarti, lo sai. E se questo ti rende serena, ancor di più. Zio Charlie passa qui tutto il giorno a farti compagnia ed è già molto", mi avvicinai e iniziai a spogliarla con delicatezza.
"Almeno fa qualcosa, si lamenta spesso di essere in pensione e di non sapere cosa fare " ridacchiò leggermente e cercò di mettere su il busto per togliere le scarpe ma la bloccai e dopo averle sorriso gliele sfilai io.
Dopo aver tolto tutti gli indumenti la sollevai a mo' di sposa e la adagia delicatamente nella vasca; la vidi sorridere beata immersa nell'acqua calda e chiudere gli occhi.
Presi la sua spugna e versai un po' di bagnoschiuma su di essa prima di iniziare a lavarle la schiena.
Zio Charlie mi chiedeva spesso se mi vergognassi e molte erano state le volte in cui si era proposto di aiutarla nell'igiene personale, ma io non mi vergognavo affatto, anzi: era una delle cose a cui non avrei mai rinunciato, era un momento di pace, tranquillità; un momento in cui mi sentivo più vicino a lei, più legato a lei. Era mia madre e non avrei mai provato vergogna nel farle un bagno e aiutarla nella sua igiene personale sapendo che lei ormai non era più capace di farlo da sola.
Zio Charlie passava tutta la giornata a casa mia per fare compagnia alla mamma e cucinarle il pranzo, riempiva quindi i momenti in cui io ero a lavoro. Non aveva famiglia ed era in pensione, quindi per lui non era un problema aiutarci.
Dopo aver finito la doccia e averla rivestita notai quanto fosse stanca, così velocemente la portai a letto e le rimboccai le coperte.
"Ricordo quando ti sistemavo il lenzuolino e il tuo orsacchiotto, eri un bambino d'oro quando dormivi" la sua voce ormai era un sussurro quasi inudibile, "Vorrei farlo ancora una volta".
Sospirai sentendo gli occhi pizzicare ma mi trattenni ancora una volta: mia madre aveva bisogno di forza, non potevo piangere davanti a lei. Aveva bisogno di sapere che nonostante tutto io ero forte per lei, io non sarei caduto e non l'avrei lasciata cadere.
"Se può consolarti, immagino ogni sera che tu lo faccia" bisbigliai prima di darle un bacio sulla fronte e sussurrarle quanto la amassi.
Sistemai ancora per un po' le sue coperte e solo quando fui sicuro che fosse tutto apposto e che lei si fosse addormentata, mi recai nella mia stanza con il labbro stretto tra i denti.
Solo una volta davanti alla finestra, solo e sicuro che non potesse sentirmi, mi lasciai andare in un pianto soffocato e silenzioso.
Ripensai a mio padre: di lui rimanevano solo alcune foto scattate con me nel mio primo anno di vita. Piansi per la sua morte, perché non riuscivo a ricordarlo nonostante ogni giorno mi sforzassi di recuperare almeno un solo ricordo dalla mia memoria.
Ripensai a mia madre quando era ancora in salute: i pomeriggi passati a fare i compiti scolastici insieme, le passeggiate in centro la domenica mattina, le giornate al mare, i castelli di sabbia, le risate, la gioia, il profumo dei suoi magnifici piatti cucinati unicamente con le sue mani. Piansi ammirando il coraggio che aveva avuto nel non buttarsi giù dopo la morte di suo marito, nel crescermi in solitudine, nel rimanere fedele a mio padre nonostante all'epoca avesse tutta la vita davanti da potersi godere, nell'accettare la sua malattia senza versare lacrime.
Piansi immaginandomi camminare tra i corridoi dell'università con una pila di libri in mano.
Piansi per tutte quelle volte che fui licenziato, per tutte quelle volte che tornavo a casa con la consapevolezza di non poterla aiutare con le spese.
Piansi per tutte le visite mediche.
E piansi per l'ultimo anno, costantemente in pericolo, costantemente in ansia per la paura di perdere il lavoro per colpa di Taylor e dei miei ritardi.

Pistacchio&Nutella {BoyxBoy}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora