Mi massaggiai le tempie chiudendo gli occhi e poggiando i gomiti sulla mia scrivania: la testa pulsava prepotentemente, lo stomaco era in subbuglio e probabilmente non avevo una bella cera.
Quel lunedì fu un inferno per me: nonostante io non avessi l'abitudine di ubriacarmi, nel weekend avevo deciso di non seguire le regole e dopo la festa di Jennifer il venerdì sera, avevo avuto la brillante idea di partecipare ad altre feste i giorni successivi. Non fraintendetemi, mi ero divertito da matti, ma alcuni pensieri che mi frullavano in mente mi avevano portato -per tre sere di fila- a far uso di alcool come mai avevo fatto.
Dopo la situazione scomoda capitata venerdì in sala riunioni, la mia testa aveva ben deciso di viaggiare in un trip continuo alla ricerca di spiegazioni. Sebbene non fossi interessato a ciò che passava in mente a Taylor, quel venerdì la situazione mi aveva creato non poche domande e purtroppo ero una persona talmente curiosa da non riuscire a non farmene e a non cercare ininterrottamente una risposta.
Così, data la scarsa collaborazione della mia coscienza in merito a ciò, avevo deciso di rifugiarmi negli effetti dell'alcol, alla festa di Jennifer -ragazza molto simpatica comunque. Effetti che però erano momentanei, così la sera dopo mi ero ritrovato in una discoteca affollata e grondante di persone a bere l'ennesimo bicchiere di chissà cosa. E la sera dopo ancora…beh lo stesso.
Il mio immancabile senso di responsabilità, però, aveva avuto una grande idea: ammettere ai miei amici le mie grandi intenzioni in modo da avere poi un passaggio sicuro a fine serata.
Effettivamente non era andato male il weekend: alla festa di Jennifer avevo conosciuto un ragazzo, James, molto carino che mi aveva lasciato il suo numero; sabato in discoteca ero finito schiacciato contro il muro del bagno mentre un ragazzo di cui non ricordo il nome si prendeva cura di me e domenica avevo contattato James e lo avevo invitato ad unirsi a noi.
Mentre cercavo di non pensare al mal di testa, mi resi conto che in realtà del giorno prima non ricordavo granché e mi ripromisi di chiedere a Gabriel e Emily cosa fosse successo in quel locale anonimo nella pausa pranzo.
Ah, si, questa devo dirvela: ero riuscito anche quel lunedì ad arrivare in orario a lavoro, ma non era stato semplice. Date le mie condizioni della sera prima, quella mattina ero stato costretto ad alzarmi molto presto per fare ciò che ormai era la mia routine, e per fortuna ero riuscito a trovarne la forza.
Sentì ancora una volta le tempie pulsare mentre aprivo gli occhi, la luce dalla grande vetrata dell'ufficio non mi stava per nulla aiutando, e nemmeno l'aspirina che avevo preso prima di andare a lavoro. Sentivo il mio corpo cedere ad ogni movimento, mi ripromisi di non ridurmi più così neanche sotto tortura.
"Jefferson!" il riprovero del Signor Robert mi fece sobbalzare dalla mia sedia, mi guardai intorno e lo individuai a qualche metro da me.
Mi schiarì la gola e provai a mantenere una posizione eretta, guardando il monitor del mio computer: 12 clienti, non potevo farcela.
"Non ti pago per dormire, datti una mossa!".
Annuì piano per non far girare la mia povera testa e iniziai a digitare le prime righe di una pratica.
Stavo quasi per riacquistare la mia normale concentrazione, quando "Edward Jefferson, non hai una bella cera" la voce di Hoffenheim strillò facendomi venire i brividi. Perché doveva avere una voce così fastidiosa?
Alzai lo sguardo e sbuffai nel vederlo avvicinarsi alla mia postazione con dei fogli in mano e un sorriso irritante in volto.
Arrivato davanti alla mia scrivania, lasciò cadere rovinosamente i fogli su di essa prima di guardarmi intensamente dall'alto. Il suo sorriso scomparve, per un attimo credetti di aver intravisto un barlume di preoccupazione nelle sue iridi, ma probabilmente ero ancora un po' ubriaco.
"Hai fatto baldoria nel weekend?" la sua risatina mi infastidì, preferì dare un'occhiata alle sue maledette carte piuttosto che guardarlo.
"Sei invidioso forse? Almeno io scopo, il tuo pene non vede la luce del sole da almeno qualche anno, ne sono certo" gli sorrisi altezzoso e vidi il suo viso cambiare espressione da divertito ad infastidito. Mi trucidò con lo sguardo "Almeno io non ho la Clamidia" e fui sicuro di aver intercettato una nota di…dolore nella sua voce, forse.
"Ne sei sicuro?" alzai un sopracciglio sfidandolo con lo sguardo, ma il dolore alla testa non mi permise di continuare il battibecco, così "Dimmi cosa ti serve, non sono dell'umore oggi" ammisi stanco mentre mi massaggiavo la fronte. Diedi un'occhiata alle sue cartacce e mi chiesi perché mai avesse l'abitudine di stamparle. Quando a me serviva una firma da parte sua, utilizzavo la via telematica, "E perché stampi tutte queste cartacce, non sai mandarle via mail alla mia postazione? Si perde meno tempo" sbuffai e sfogliai velocemente gli altri fogli.
Per la prima volta lo vidi quasi offeso dal mio tono, ma non mi importó.
"E menomale che scopi, dalla tua frustrazione non si direbbe" scoppiò a ridere come un'idiota e io lì non ci vidi più: afferrai i suoi fogli e iniziai a strapparli davanti ai suoi occhi, la sua risata si affievolì lentamente, le sue labbra si distesero in una smorfia di stupore e meraviglia mentre il suo corpo si irrigidiva sorpreso.
"Non ti firmo nulla di cartaceo, inviale per email d'ora in poi e non presentarti più alla mia scrivania se non è strettamente necessario e per strettamente necessario intendo dire mai" sbottai furioso, la sua insolenza e il suo atteggiamento mi avevano stancato: mi faceva perdere un mucchio di tempo per le sue bambinate, ero stanco di lavorare in quel modo. Non feci nemmeno caso agli sguardi dei nostri colleghi, mi alzai e lasciai cadere dalle mie mani i pezzettini di carta facendoli volteggiare fino al pavimento. Guardai il suo sguardo impanicato seguire la caduta di ogni pezzettino di carta. Spostai la mia sedia per poter passare e mi diressi a passo svelto verso l'ascensore. La mia pazienza era finita, dovevo risolvere quella situazione. Avevo intenzione di parlare con il Signor Robert all'istante.
"Jefferson".
La mia camminata fulminea si interruppe bruscamente nel sentire la voce di Taylor alle mie spalle: credetemi se vi dico che un tono così arrabbiato, furioso, spaventoso, tetro e oscuro non era mai uscito dalla sua dannata gola.
Mi congelai sul posto terrorizzato, ricordai l'ultima volta che avevo stracciato le sue carte: il nostro primo incontro, la perdita dei nostri clienti. L'avevo fatta grossa nel ripetere la mia brutale vendetta?
Mi girai, Taylor era alla fine del corridoio, fermo, immobile, alcuni pezzetti della sua pratica stretti tra le mani, le sopracciglia aggrottate, i denti visibili in un ringhio furioso, la cute non più olivastra ma rossa e gli occhi iniettati d'odio come mai avevo visto prima.
"Merda" per quanto la situazione somigliasse più ad una tragedia, non riuscì a trattenermi e scoppiai in una grassa risata nel vederlo in quello stato.
Mi piegai tenendomi la pancia, sentì addirittura un paio di lacrime scendere sui miei zigomi, ma la mia risata si affievolì quando lo vidi scaraventare teatralmente le cartacce per terra e iniziare a correre verso di me.
Sgranai gli occhi e mi girai per iniziare a correre anch'io verso l'ascensore sperando di arrivare prima di lui.
"Non la passi liscia questa volta Edward, io ti uccido" lo sentì ringhiare dietro di me.
Mi guardai un'attimo indietro, alcune teste dei nostri colleghi sbucarono dai lati del corridoio, Taylor era lontano da me una ventina di metri.
Mi affrettai a raggiungere l'ascensore, schiacciai freneticamente il pulsante per richiamarlo, iniziai a tremare. Saremmo arrivati alle mani? Oltre alla mia sfuriata in mensa della settimana prima non ci eravamo mai toccati con un dito, eravamo davvero così al limite? Tutto quello mi fece pensare che parlare della situazione con il Signor Robert era inevitabile ormai -oltre che urgente- mentre continuavo a schiacciare il pulsante.
Guardai Taylor, 10 metri.
La porta si aprì finalmente e io mi scaraventai nell'ascensore, inciampando e rischiando di cadere rovinosamente per terra. Per mia fortuna era vuota. Mi girai, schiacciai il pulsante del 5° piano più volte e vidi le porte iniziare a chiudersi.
Il sudore iniziò a colarmi sulla fronte mentre guardavo quei pochi centimetri ancora aperti, andiamo!
Sospirai di sollievo convinto di sentire nel giro di un secondo il bip che segnala la chiusura delle porte, ma non fu così: in un attimo vidi sbucare una mano che fermò le ante, il sensore dell'ascensore si attivò e le fece aprire, mostrandomi Taylor furibondo.
"Merda" borbottai quando lo vidi entrare con una grande falcata nell'ascensore e premere il tasto per scendere.
Mi lanciai contro la parete per schiacciare nuovamente il numero 5, ma lui in un attimo schiacciò per la seconda volta il numero 2.
Le porte si chiusero.
Io schiacciai il numero 5.
Taylor schiacciò il numero 2.
Io il 5.
Lui il 2.
I nostri sguardi di sfida si scontrarono, verde contro nocciola, pistacchio contro Nutella. Sentì un brivido, persi un battito, le nostre dita si sfiorarono, poi fu un attimo: sentimmo l'ascensore salire per almeno qualche metro, un rumore forte e metallico accompagnò il breve tratto prima che la capsula non si bloccasse bruscamente, tremando.
Cademmo disordinatamente sul pavimento, la luce bianca e accecante dell'ascensore si spense facendo scattare quella d'emergenza flebile e quasi invisibile.
Gemetti per la caduta, la testa martellava peggio di prima, avevo sbattuto molto forte ad una gamba e il culo pesante di Taylor mi fermava le braccia per terra.
"Sposta il tuo culo pieno di cellulite dal mio corpo, razza di idiota" sbottai frenetico, mentre iniziavo a realizzare l'accaduto.
Spinsi il suo corpo via, lo sentì gemere, probabilmente aveva sbattuto, ma non ebbi il tempo di gioirne: mi alzai in piedi, con cautela mentre guardavo la luce fulminata e i tasti numerati spenti, ma quello che mi fece perdere la ragione furono le porte: non erano chiuse, bensì aperte di forse 3 centimetri, ma quella piccola fessura mi fece prendere atto della situazione. L'ascensore aveva iniziato la sua salita, ma si era bloccato probabilmente tra il 4° e il 5° piano: tra le ante si vedevano dei mattoncini grigi e impolverati; seguì attentamente con lo sguardo l'altezza fino ad arrivare ad intravedere un piccolo spiraglio di luce, probabilmente proveniente dal corridoio del 5° piano.
"Cazzo" sussurrai, eravamo bloccati, totalmente e rovinosamente bloccati, "Cazzo" sentì la mia voce affievolirsi ancora di più, il sudore sulla fronte aumentare.
Sentì il mio corpo iniziare a perdere le forze, cercai di accasciarmi lentamente per non far sprofondare l'ascensore, mi abbracciai le gambe, le mani iniziarono a tremare, sentì un blocco alla gola che pian piano si estese per tutto il petto.
Il respiro si fece corto, la vista offuscata dalle lacrime, gli occhi bruciarono, dolore al petto, dolore alla testa, gambe molli, cuore a mille.
Mi guardai attorno, la luce d'emergenza non lasciava intravedere quasi nulla, riuscì a malamente a distinguere la figura di Taylor cercare di alzarsi lentamente dal pavimento.
"Edward?" la sua voce arrivò ovattata alle mie orecchie, l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che ero bloccato in un diamine di ascensore, non potevamo chiedere aiuto, come saremmo usciti da lì? E se il nostro peso avesse fatto sporfondare la capsula? Eravamo tra il 4° e il 5° piano, saremmo morti.
"Edward? Che ti succede?" fu strano sentirmi chiamare da lui per nome per due volte di fila, a tratti distinsi il suo tono disorientato, preoccupato e anche un po' spaventato.
Non riuscì a rispondere, per la prima volta in vita mia cercai disperatamente di cercare aiuto in lui, ma il mio fiato corto non me lo permise. Iniziai ad annaspare, sembrava avessi corso per kilometri senza fermarmi; la fatica nel respirare fece aumentare il dolore alla testa e al petto, in quel momento immaginai la mia morte. Volevo uscire da lì, volevo andare da mia madre, abbracciarla. Volevo che mi dicesse che sarei tornato da lei, avrei potuto abbracciarla ancora, quello di stamattina non era l'ultimo bacio, no. Il dottore aveva detto che ci saremmo goduti tanti altri anni.
Volevo uscire da lì, volevo uscire.
Iniziai a scalciare nel vano tentativo di liberarmi, mi sentivo imprigionato, non volevo stare lì, sentivo le pareti schiacciarmi.
Scalciai, scalciai fortissimo, i miei piedi colpirono la parete accanto a me, o forse Taylor?
"No Edward" sentì il riccio urlare, strizzai gli occhi chiudendoli: il suo tono alto fece pulsare le mie tempie. Volevo chiedergli di smetterla di urlare, ma ancora una volta il mio fiato corto non me lo permise.
Poi qualcosa si posizionò sulle mie cosce, e io spaventato spalancai gli occhi, ma in realtà non era altro che Taylor: si era seduto sulle mie cosce a cavalcioni, con le sue gambe stava cercando di bloccare le mie ormai con vita propria che scalciavano ancora.
Lo guardai confuso, volevo aria, perché mi si era messo addosso? Il suo profumo mi pervase, i suoi occhi si incastrarono nei miei mentre con le mani mi agguantò le guance con una presa decisa.
"Edward devi respirare, conta i respiri con me" il suo tono sembrava tranquillo mentre mi invitava con gli occhi ad imitarlo. Iniziò a fare respiri profondi e rumorosi a bocca aperta, provai ad imitarlo, cercai di concentrarmi sul suo petto che si espandeva piano e dolcemente ma non ebbi risultati. Il panico aumentò, perché non riuscivo a respirare?
"Conta con me: uno" espirò "Due" inspirò "Tre" espirò. Provai ancora una volta ad imitarlo ma sensa risultato. Iniziai a piangere, avevo il petto indolenzito, probabilmente stavo avendo un infarto, quale braccio perdeva la sensibilità durante un infarto? Il destro? Il sinistro?
Il pianto mi tagliò ulteriormente il fiato, annaspai ancora di più. Spostai lo sguardo altrove, quel riccio non mi stava aiutando per nulla.
"No Edward, guarda me" le sue mani fecero forza sul mio viso e mi costrinsero a guardarlo di nuovo. Provai a concentrarmi sulla presa delle sue dita, erano morbide, delicate, lisce. Non erano le classiche mani maschili rugose, dure, callose, eppure di mani maschili ne avevo provate. Erano calde, accoglienti.
"Guardami" spostai il mio sguardo dal suo petto ai suoi occhi, provai ad ascoltarlo, provai con tutto me stesso a credere che potesse aiutarmi. I suoi occhi verdi splendevano anche nella penombra, non avevano paura di brillare nemmeno durante una situazione del genere.
Provai ancora una volta a regolarizzare il respiro ma a quanto pare il mio apparato respiratorio non voleva collaborare. Incatenai i miei occhi ai suoi, erano l'unica luce in quel momento, e cercai di scorgere un barlume di tranquillità, pace e speranza.
"You think it's easy" i suoi occhi brillarono ancora di più quando con dolcezza intonò quelle parole. Lo guardai confuso, Taylor sapeva cantare?
"You think I don't wanna run to you,
But there are mountains
And there are doors that we can't walk through" la sua voce fece eco sui muri e si disperse nell'aria, sentì il mio respiro bloccarsi.
"I know you're wondering why
Because we're able to be just you and me within these walls
But when we go outside
You're gonna wake up and see that it was hopeless after all" sentì i suoi pollici accarezzare le mie guance e pulire le mie lacrime; socchiusi gli occhi, l'aria fuoriuscì dalla mia bocca più lentamente. La sua voce sembrava quasi angelica, trasmetteva serenità, le sue labbra si muovevano in una danza soave e lenta, i suoi occhi non si staccarono dai miei. Rimase qualche secondo in silenzio, lo vidi concentrarsi nel captare il mio respiro che con mio stupore iniziò a rallentare per davvero.
"No one can rewrite the stars" un piccolo acuto, un respiro lento. I suoi occhi mi invitarono a continuare mentre i suoi pollici asciugavano le mie guance.
"How can you say you'll be mine?" annaspai un po', la mia voce si ruppe sull'ultima parola.
Lui annuì, sorrise fiero "Everything keeps us apart" un altro piccolo acuto gli fece gonfiare le vene del collo, guardai il suo pomo d'Adamo incantato muoversi su e giù "And I'm not the one you were meant to find" ancora una volta il suo sguardo mi invitò a continuare; presi un grosso respiro tremolante "It's not up to you".
"it's not up to me" sorrise ancora.
Un altro respiro, sempre più calmo, il dolore al petto iniziò ad affievolirsi "When everyone tells us what we can be".
"And how can we rewrite the stars?".
"Say that the world can be ours" un altro respiro, le tempie non pulsavano più.
"tonight" il mio cuore perse un battito nel sentire quell'ultima parola intonata da lui, i suoi pollici si fermarono. Le sue mani si allontanarono pian piano, il suo sguardo curioso e attento mi scrutò e per la prima volta mi sentì in soggezione sotto i suoi occhi.
"Va meglio?" mi chiese piano, non urlò.
Annuì lentamente mentre mi concentravo sul mio respiro ormai regolare.
Lui sorrise ancora, non mi aveva mai sorriso così sinceramente prima d'ora. Mi incantai a guardarlo, come aveva fatto? Cosa mi aveva fatto? Quale potere aveva su di me?
Lentamente scostò le sue mani calde e vellutate dal mio viso, allentò la presa delle sue gambe sulle mie e si allontanò dal mio corpo. Con cautela si rimise seduto al mio fianco e poggiò la testa sulla parete chiudendo gli occhi.
Rimasi lì impalato a guardarlo ancora incredulo di ciò che aveva fatto.
Seguì un silenzio di almeno dieci minuti in cui lui respirava attentamente, io ero lì imbambolato a pensare.
Il mio attacco di panico.
Lui su di me.
Il suo profumo.
Le sue mani.
Il suo sguardo.
La sua voce.
Il suo sorriso.
"Sei claustrofobico?".
Sobbalzai, non mi aspettavo parlasse. Il suo tono era ancora tranquillo, come faceva a rimanere calmo in una situazione del genere? Mi resi conto della domanda, mi schiarì la voce e sussurrai un "No" e portai lo sguardo altrove "Soffro di attacchi di panico…a volte" ammisi. L'imbarazzo mi fece andare in iperventilazione: mi aveva visto tremare, piangere, annaspare…avevamo cantato insieme?
Lo guardai per vedere la sua reazione, mi sarei aspettato una risata sguaiata, invece lui annuì tranquillo prima di annunciare "Brutta storia" quasi…empatico.
Aggrottai la fronte "Perché Rewrite the stars di James Arthur e Anne-Marie?" chiesi confuso e non riuscì a trattenere una risatina mio malgrado.
"È l'ultima canzone che ho ascoltato, quindi la prima che mi è venuta in mente".
Alzai le sopracciglia annuendo "E…" mi schiarì la voce, stranito dalla nostra capacità di portare avanti una conversazione senza dirci nulla di cattivo "Perché, insomma…perché l'hai cantata?".
"Mia sorella ha sofferto di attacchi di panico da adolescente, l'unico modo per calmarla era cantare insieme a lei. Ci ho provato, ma a quanto pare la tecnica è sottovalutata" spiegò velocemente, lo guardai sorpreso per il suo tono tranquillo e la sua nonchalance nel parlare con me.
"Quindi hai una sorella" mi morsi il labbro inferiore, ero fermamente convinto che quella sarebbe stata la fine della nostra conversazione. Nonostante l'odio che provassi nei suoi confronti, era piacevole -a quanto pare- chiacchierare con lui.
"Si" ridacchiò con occhi sognanti, probabilmente immaginando sua sorella "Patty, perché Patrisha è da vecchiaccia" scimiottò una voce femminile, cercando di imitare la sorella.
La sua smorfia mi fece ridere, sentì una strana vibrazione al petto mentre lui rideva insieme a me.
Girò la testa verso di me, mi scrutò con uno sguardo che non seppi decifrare, ma fu intenso "Come usciamo di qui?" poi chiese quasi retoricamente.
Sgranai gli occhi e mi guardai intorno: eravamo ancora intrappolati in quell' ascensore, diamine.
"Ecco…non lo so, proviamo ad urlare? Se i miei calcoli sono giusti dovremmo essere appena sotto l'ufficio del Signor Robert, magari ci sente" avevo dimenticato il cellulare sulla mia scrivania, ma a prescindere da tutto probabilmente lì sopra non c'era molto campo.
Come se mi avesse letto nel pensiero, sfilò dalla tasca del suo completo grigio il suo cellulare e dopo aver digitato la password si alzò per cercare una zona di quella capsula dove ci fosse campo.
"Forse riesco a fare una telefonata" annunciò dopo qualche secondo prima di portare il cellulare all'orecchio.
"Daisy? Ciao, sono Hoffenheim, mi senti? Perfetto. Io e Jefferson siamo rimasti bloccati nell'ascensore….".
Lo guardai dal basso, rannicchiato nel mio angolo, mentre lui cercava di fare piccoli movimenti e spiegava la situazione alla segretaria del nostro capo. La sua voce era rimasta tranquilla, probabilmente aveva una buona gestione dell'ansia al contrario mio. Spostai lo sguardo sulla fessura tra le due ante della porta, imbarazzato dal modo in cui lo stavo guardando. Mi chiesi ancora una volta cosa diavolo fosse successo: era la prima volta in cui vedevo Taylor così sorridente -con me-, così calmo -con me-, premuroso e gentile -con me-.
Sentì lo stomaco saltellare al ricordo delle sue mani sulle mie guance, i suoi pollici che mi accarezzavano, lui su di me, i nostri corpi così vicini, i nostri sguardi incatenati, pistacchio contro Nutella.
"Perfetto" la sua voce entusiasta mi fece sobbalzare, "Stanno arrivando i soccorsi, in poco tempo saremo fuori di qui"
Sospirai di sollievo, non avevo mai gioito così nel profondo nel sentire delle parole fuoriuscire dalle sue labbra rosa.
Lo seguì con lo sguardo mentre si sedeva nuovamente sul pavimento, seguirono minuti interminabili di silenzio imbarazzanti in cui io ricordai il motivo per il quale eravamo finiti in quella situazione. Sarebbe tornato tutto come prima una volta usciti di li? Mi avrebbe guardato di nuovo con uno sguardo d'odio? Chi era, in realtà, Taylor Hoffenheim?
E se, invece, avessi provato a sistemare le cose quella volta? Magari il buonismo di quel momento lo avrebbe aiutato a perdonarmi per la sua pratica stracciata.
Posai lo sguardo su di lui, era seduto per terra, le gambe distese pacamente davanti a lui, le mani posate sul ventre e la testa sulla parete, gli occhi chiusi.
Ad occhi chiusi sarebbe stato più semplice, si. Così imitai la sua posizione, chiusi gli occhi e presi coraggio, un coraggio che non sapevo di avere "Mi dispiace per aver frantumato la tua pratica" mormorai, non credevo di poter pronunciare quelle parole, proprio a lui.
Il silenzio che si creò dopo quelle mie parole mi terrorizzò: gli avevo ricordato ciò che avevo fatto, si sarebbe infuriato lo sapevo. Perché avevo rovinato quel momento di tregua momentanea? Perché dovevo essere così imbecille?
"Non fa niente", le sue parole mi fecero rabbrividire. Oh, forse il momento di bontà non era andato perso. Aspetta …cosa?
"Non…fa niente?" chiesi incredulo, non mi permisi di aprire gli occhi.
"Davvero, ho salvato il file sul computer, non è andato perso nulla" ammise con voce pacata.
Aprì un occhio, quella doveva essere tutta una messa in scena, lo sospettavo vivamente: e invece no. Aprì anche l'altro occhio, forse guardare solo con uno mi stava giocando un brutto scherzo: e invece no.
Lui era ancora seduto lì, le mani sul ventre e gli occhi chiusi.
Boccheggiai, forse tutto quello era frutto della mia immaginazione: non poteva esistere un Taylor che mi rispondesse così, che non mi sbranasse. Prima di rimanere bloccati in ascensore mi aveva ringhiato contro, diamine.
Avevo per caso battuto la testa quando l'ascensore si era bloccato? Magari in quel momento ero in coma e mi stavo immaginando tutto: la sua premura, lui su di me che canta, il suo…perdono? Oppure era la classica quiete prima della tempesta?
Chiusi di nuovo gli occhi, se in uno scatto fulmineo mi avesse ucciso, non volevo guardare.
"Edward sono serio" ammise nuovamente, il suo tono non ammetteva pentimento.
"Non chiamarmi Edward, è troppo strano" lo pregai, tutta quella situazione mi stava facendo impazzire, il suo profumo mi stava facendo impazzire, la sua presenza affianco a me mi stava facendo impazzire.
"Va bene Jefferson" rise, rise? Ma stiamo scherzando?
"Allora…" mi schiarì la voce e aprì nuovamente un occhio, lui ancora in mobile nella stessa posizione "Se non è andato perso nulla, perché mi stavi inseguendo come se fossi un cane furioso con la rabbia?" chiesi quasi ingenuamente.
"Perché il tuo gesto è stato scortese in ogni caso, se io non avessi salvato il mio file ora avrei un cliente in meno. E a quel punto ti avrei ammazzato davvero".
Sorrisi nel guardarlo parlare ad occhi chiusi, le sue labbra rosa stavano cercando di rimanere dritte, la sua pelle olivastra era molto più scura sotto la fioca luce d'emergenza.
Annuì, effettivamente aveva ragione, "E ora sei arrabbiato?" scrutai il suo corpo rilassato sul pavimento.
Sorrise "No, solo stanco" ammise prima di girare la testa verso di me ed aprire gli occhi. Non mi voltai, si, lo stavo guardando e doveva saperlo. Non doveva pensare che io avessi paura di lui.
I nostri sguardi rimasero incastrati per minuti interminabili e nonostante ogni secondo che passasse rendesse la situazione sempre più strana, io rimasi lì a guardare le sue iridi verdi come il pistacchio, il prato, le foglie di rosa.
Foglie di rosa?
"Perché non può essere sempre così?" non mi resi conto di aver fatto quella domanda ad alta voce, ne presi atto solo quando i suoi occhi si sgranarono e si allontanarono dai miei. Ecco, forse lì avevo davvero rovinato il momento di quiete.
"Perché io ti odio Edward e ciò che è successo qui dentro rimarrà qui dentro" il cambio tonale della sua voce mi mise i brividi, era gelido "Ti ho aiutato in un momento di difficoltà solo perché non volevo vivere l'esperienza di rimanere bloccato in un ascensore con un cadavere accanto" i suoi occhi fissavano gelidi le porte socchiuse.
Spostai lo sguardo anch'io, mi guardai le mani che complici iniziarono a giocherellare. Ecco, tutto finito. Quasi mi piaceva quel Taylor.
"Avevo dimenticato quanto fosse smisurata la tua carenza di tatto in certe situazioni" anche il mio tono, in risposta al suo, divenne nuovamente freddo, "Tutto questo per sentirmi dire 'mi dispiace'? Be, mi dispiace deluderti ma io so riconoscere quando sbaglio, signor chiappe di bronzo".
Il suo petto vibrò per una risata sarcastica "Oh sì, infatti è proprio questa tua immensa capacità che ti stava spingendo nell'ufficio del Signor Robert per farmi licenziare?"
"Ho tutta la vita per provarci, idiota" sputai acido prima di rintanarmi nell'angolo e girarmi verso la parete, "Non rischieresti così tanto se qualche volta provassi ad essere più gentile e a non rompere le scatole alla gente".
"Sono nato per metterti i bastoni fra le ruote Jefferson, accettalo"
Arricciai il naso pronto per rispondere, ma un vociferare sulle nostre teste mi fece dimenticare ciò che volevo dire.
"Edward, Taylor, tutto bene lì sotto?" la voce di Daisy fece spuntare sul mio viso un sorriso enorme.
"Si, si! Siamo vivi" mi trattenni dall'urlare come una femminuccia "Tirateci fuori" li esortai.
"Adesso vi tiriamo su, resistete qualche minuto" una voce maschile mi tranquillizzò e ci misi qualche secondo per realizzare: sembrava la voce di James. Non avevamo parlato molto durante il weekend in realtà, durante la festa di Jennifer eravamo più concentrati nel far conoscere le nostre bocche in altre maniere - ma insomma, dicevo, quindi non sapevo che lavoro facesse e purtroppo non ricordavo bene cosa fosse successo il giorno prima, dio che figuraccia avrei fatto di lì a poco?
Sentì dei rumori, altro vociferare, nel frattempo io e Taylor rimanemmo distanti l'uno dall'altro, ognuno appartato nel suo angolo a controllare la rispettiva parete.
"Ci siamo, ora vi tiriamo su" disse -forse- James "Non vi muovete, se possibile accasciatevi per terra".
"Abbiamo fatto amicizia con il pavimento un'ora fa, tranquillo " cercai di sdramatizzare la situazione, con la coda dell'occhio guardai Taylor, nessun accenno di sorriso da parte sua, nemmeno l'ombra. Sospirai e chiusi gli occhi mentre ci tiravano su.
Due mani guantate si infilarono nella fessura e aprirono le ante, la luce proveniente dal corridoio mi accecò in un primo momento, ma non ci feci molto caso: mi alzai con attenzione e come un fulmine mi precipitai sulla terra ferma dove c'erano Daisy, il Signor Robert, James -avevo ragione, cavolo- e un suo collega.
Mi schiarì la voce e respirai aria pulita, quasi mi parve strano non essere sopraffatto dal profumo di talco di Taylor, ringraziai tutti con un caloroso abbraccio, sentì la paura scivolare pian piano dal mio corpo. Per quanto fossimo fastidiosi, non mi sarei stupito se ci avessero lasciato a marcire lì dentro.
"Be, spero che quest'ora trascorsa insieme vi sia servita per mettere in equilibrio il vostro rapporto" il Signor Robert sorrise sornione prima di incrociare le braccia al petto. Il suo sguardo non me la raccontava giusta, lo guardai di sbiego, probabilmente era contento di ciò che era accaduto.
Mi girai verso Taylor, si stava spolverando I pantaloni con tranquillità, poi guardai il mio capo "Lo odio più di prima" ammisi, il semplice fatto che cambiasse personalità da un momento all'altro non mi aveva solo confuso le idee sul suo conto, ma aveva dato vita ad un'altra teoria: Taylor era falso. Guardai James - l'unico che non avessi abbracciato-, capelli biondi, occhi marroni e labbra rosse, era uno dei ragazzi più belli che avessi conosciuto, "Grazie James" sussurrai, ero sul posto di lavoro, dovevo comportarmi in un determinato modo purtroppo, a malincuore pensai che anche lui si meritasse un abbraccio.
"Ti chiamo stasera" mi sorrise e dopo aver messo in ordine i loro strumenti, lui ed il suo collega salutarono cordialmente prima di andar via.
"Bene ragazzi, tornate a lavoro" il Signor Robert ci guardò con una nota di rimprovero, poi indicò le scale.
Annuì e dopo un caffè veloce e una piccola scossa alla testa mi rimisi a lavoro. Io e Taylor non ci guardammo più per il resto della giornata. A mensa addirittura lui cambiò tavolo e si sedette con alcuni colleghi dall'altra parte della sala pur di starmi lontano. Quel giorno tornai a casa più confuso che mai.Angolo autrice: Salve a tutti; come promesso, oggi ho pubblicato questo capitolo in cui a quanto pare sembra la situazione si stia sbloccando. Questo è solo l'inizio, spero che le prossime avventure di questi due impiastri vi facciano battere il cuore. Vi lascio con un grande abbraccio e un grosso bacio. Al prossimo capitolo!
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Pistacchio&Nutella {BoyxBoy}
Storie d'amoreNella splendida città di New York, tra le scrivanie di un ufficio, Edward Jefferson e Taylor Hoffenheim cercano di mettersi i bastoni tra le ruote in modi inimmaginabili. Un viaggio di lavoro in Italia, però, costringerà i due ragazzi a mettere il r...