(3) Thoughts of you consume

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NOAH

Bussai a quella porta con una leggera sensazione di ansia che pervadeva il mio stomaco, continuando a chiedermi se l'idea di presentarmi nuovamente lì, oltretutto con ancora addosso i vestiti dell'allenamento finito mezz'ora prima, fosse la migliore tra tutte quelle che la mia mente aveva formulato nelle sei ore precedenti.

Ma, purtroppo o per fortuna a seconda di come la volete vedere, non feci nemmeno in tempo a scappare che dall'unica voce all'interno di quelle mura giunse un invito ad entrare.

Così, mi feci forza e comparsi con imbarazzo nella stanza, facendomi morire sul nascere le parole che avevo sulla punta della labbra non appena notai Elijah con il telefono incastrato tra l'orecchio sinistro e la spalla ad esso corrispondente.

"No, mamma. Non so ancora nulla" disse lui qualche istante più tardi, mantenendo il contatto visivo tra di noi, rivolgendomi uno sguardo di quelli in grado di far tremare le gambe.

O, forse più probabile, ero talmente sensibile a qualsiasi cosa riguardasse quel ragazzo che bastava una sua semplice occhiata per farmi crollare.

"Sì, siamo d'accordo: se non potrò più pattinare, tornerò a Toronto" continuò nello stesso tono rassegnato delle parole da lui stesso sussurrate poco prima, causando l'improvvisa ed involontaria accelerazione delle pulsazioni del mio cuore.

Perchè, per la prima volta in un anno, mi trovai davanti alla possibilità di non vederlo più.

Davanti alla possibilità di non poter più osservarlo con aria furtiva solo nei momenti in cui ero sicuro al cento per cento lui non mi stesse prestando attenzione. Davanti alla possibilità di smettere di sforzarmi ogni dannatissimo giorno di odiarlo perché convinto, con tutto me stesso, che fosse meglio dell'alternativa.

Mi costrinsi a calmarmi nell'arco dei tre secondi che impiegò, subito dopo aver salutato sua madre, ad interrompere la chiamata ed a posarsi il telefono sul grembo, riportando solo allora i suoi occhi su di me.

"Che fai qua?" mi domandò solamente, nascondendo nel suo tono di voce sorpreso un accenno quasi impercettibile di risentimento.

Accenno impercettibile che, però, purtroppo io percepii.
Ormai, ero diventato bravo a riconoscere le emozioni che attraversavano le frasi che lasciava uscire dalle labbra.

"Credo che non mi piacesse l'idea di saperti da solo per tutto il giorno" risposi con finta aria apatica, sapendo benissimo da me, però, che invece mi importava anche fin troppo di lui.

Sostenevo con fermezza con tutti, e soprattutto con la mia testa, che Elijah Stevenson fosse la mia nemesi, eppure, ironicamente, sembrava più la mia ossessione.

Fin dall'inizio, quando era comparso nel mio campo visivo per la prima volta, mi aveva smosso a livello dello stomaco degli oceani talmente grandi che mi ero obbligato ad evitarlo.
Il fatto, poi, che sarebbe diventato un mio rivale non aveva fatto altro che aiutarmi. Alla fine dei conti, il primo periodo fu anche semplice.

Quello che non avrei mai immaginato è il dopo: più lui vinceva al posto mio, più una sensazione di immensa frustrazione mi dominava e, allo stesso tempo, più non riuscivo a fare a meno di averlo in testa perennemente.

I miei pensieri ruotavano solo intorno a lui.

I miei gesti erano studiati solo in base a lui.

Tutto era per causa sua.

In sostanza, avevo fatto qualsiasi cosa in mio possesso per far sparire quella dannatissima sensazione allo stomaco, che mi pervadeva in sua presenza, che ero finito per fare l'esatto contrario.

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