"Non voglio mettere questo vestito, mi sta stretto" ricordo di aver inveito e protestato mentre il tessuto ruvido del cotone grezzo mi solleticava le braccia, mia madre pero' non aveva intenzione di cedere, non lo faceva mai "tutte le ragazze brave e buone vanno in chiesa" mi disse in tono sbrigativo mentre infilava le maryjane bianche sui miei pedi avvolti nei calzini con i merletti, "allora non sono brava e non sono buona" risposi, non si prese la briga di rispondermi ma inizio' a spazzolarmi i capelli e a legarli in uno stretto chignon che mi tirava sulle tempie e mi faceva venire il mal di testa, ricordo la sensazione delle forcine che venivano infilate tra i capelli e immancabilmente sembravano volermi fare lo scalpo, ogni domenica sembrava la mia prima comunione, ogni domenica percorrevo "la via dell'umiliazione" cosi la chiamavo, mentre vestita a festa mi dirigevo a messa con mia madre e nella mia mente imprecavo come mio padre ancor prima di imparare a vestirmi da sola.
Credo di aver avuto sette o otto anni nei primi vividi ricordi di quelle interminabili camminate per raggiungere il centro del paese, non avevamo l'auto e per arrivarci dovevamo percorrere la strada sterrata per chilometri, il risultato una volta in centro era impietoso, le mie maryjane bianche erano ricoperte di terra e mia madre passava sempre i minuti prima della messa a cercare di ripulirle. Odiavo vederla chinata con quel fazzoletto in mano, mentre sfregava con forza potevo vedere le sue braccia morbide che ondeggiando lasciavano intravedere del grasso sotto la sua pelle bianca e liscia, mi concentravo sui movimenti delle sue braccia e sul lieve ondeggiare di quel lembo di pelle morbida per non ascoltare le risatine delle bambine che mano nella mano mi sfilavano davanti con i loro abiti della domenica, piu' formali, ma semplici, niente merletti, niente chignon, niente da dimostrare.
La cosa piu' umiliante di quelle "gite domenicali" era veder arrivare la signora Maria e il signor Paolo, con la loro BMW tirata a lucido e veder scendere dall'auto Marco, solitamente in camicia e calzoncini, disinvolto nei sui abiti ma non nella sulla pelle, scoprii in seguito.
Arrivavano sempre pochi minuti prima della funzione, giusto in tempo per assistere alla scena della danza delle braccia molli di mia madre che si improvvisava lustrascarpe, "buongiorno Mariya" diceva la madre di Marco "signora Maria, buongiorno" rispondeva mia madre.
La differenza potrebbe stare tutta in quella "Y" in realtà mai pronunciata, mia madre, di origini russe si chiamava "Mariya" la madre di Marco, classicamente "Maria", eppure tutta la differenza del mondo stava in quel "signora" che mia madre era tenuta a pronunciare anche dopo anni di servizio in casa loro, evidentemente se lavi le mutande a qualcuno che non sia della famiglia devi chiamarlo "signore" o si rischia un' eccesso di intimità, queste convenzioni non mi infastidivano, sapevo che posto occupavamo io e mia madre nella comunità e in casa dei Signori Imperio, lo intuivo, me ero consapevole sin da bambina, mi infastidiva pero' l'insulsa durata di quei convenevoli, in casa loro mia madre era invisibile, davanti la porta della chiesa era il loro caso pietoso "avreste potuto dirci che venivate alla funzione, vi avremmo dato un passaggio in auto" era la frase di rito che la Signora pronunciava ad alta voce dopo il buongiorno, andavamo in chiesa ogni domenica da anni, lo sapevano, "amiamo camminare" rispondeva puntualmente mia madre. Il signor Paolo interveniva di Rado e Marco spesso fissava le mie scarpette impolverate, i merletti, il vestito inamidato, con un' implacabilita' che mi metteva estremamente a disagio, non ne rideva, non commentava, sembrava solo un piccolo ornitologo in procinto di segnare sul suo piccolo taccuino il colore delle piume della strana bestiola che si è ritrovato davanti.
Entrate in chiesa io e mia madre sedevamo sempre nelle retrovie, per andar via presto una volta ultimata la funzione, la strada del ritorno era lunga, mi chiesi spesso cosa pensasse mia madre durante la messa, a casa non pregavamo mai, non c'erano crocifissi, non avevamo una Bibbia, non so nemmeno se fosse veramente cristiana ma ricordo che sapeva sempre quando inginocchiarsi e quando alzarsi in piedi, stava sempre ben dritta e quando c'era da genuflettersi mi trascinava giu' con se.
La chiesa era piuttosto grande e sfarzosa per una comunita' cosi piccola, marmi policromi, affreschi e vetrate colorate rendevano l'ambiente profondamente solenne, la luce filtrava lieve in un caleidoscopio di blu e vermiglio e ammorbidiva ogni ombra, ingentiliva ogni volto, pareva che se proprio Dio avesse dovuto andare in villeggiatura in sud Italia si sarebbe fermato li', era essenzialmente meravigliosa e questo attenuava il disagio di quelle interminabili arringhe che Don Girolamo proclamava a gran voce dal suo pulpito, non lo ascoltavo mai, era la mia muta protesta a quel rituale domenicale.
I Signori Imperio sedevano ogni domenica in prima fila, Marco stava sempre tra i suoi genitori, spesso mi ritrovavo a fissargli la nuca, un rituale anche questo che ando' avanti per anni, il mutare della sua nuca e delle sue spalle ha scandito lo scorrere del tempo come una clessidra durante gli anni della mia infanzia, forse sentiva un pizzicore o un prurito, perché se lo guardavo troppo a lungo si girava di scatto e i suoi occhi incontravano i miei, durava un momento, poi la Signora richiamava la sua attenzione con una mano sulla sua spalla e Marco mi lasciava ad arrossire in dignitosa solitudine, per quanto si possa essere soli circondati da così persone, ma forse non c'è luogo migliore per sperimentare la solitudine di una chiesa gremita.
Mi sentivo infinitamente piccola tra gli affreschi di martiri e redenzioni, con la mente che vagava ovunque e veniva riportata al presente solo da quel piccolo furtivo scambio, i suoi occhi chiari erano come due spilli che si conficcavano nel mio cervello, come le forcine per capelli di mia madre mi tormentavano fino a che sulla via del ritorno non me le strappavo dalla testa, gli occhi di Marco pero' spesso restavano li, impressi a fuoco sotto le mie palpebre, come un tarlo, "perche' si è girato? Che vuole?" mi chiedevo sempre mentre mi strappavo via forcine e ciocche di capelli con una furia che faceva inorridire mia madre.
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LA CASA SUL VIALE
RomanceMarco e Isabella sono cresciuti insieme, si sono osservati prima con diffidenza, successivamente con morbosa curiosità per anni, vicinissimi ma separati da un confine invisibile che pare permeare tutta la cittadina in cui le loro esistenze sono conf...