𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 𝓢𝓮𝓬𝓸𝓷𝓭𝓸

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Al sopraggiungere dell'alba, il sipario era pronto per essere innalzato affinché il nuovo atto, di quello che era lo spettacolo chiamato vita, potesse avere inizio.

Si dice che il mattino abbia l'oro in bocca e io avevo sperato per tutta la notte che, quello che mi attendeva, non avesse solo qualche spicciolo da prestarmi.

Il futuro che avevo immaginato, non rispecchiava ancora quello che mi sembrava di scorgere all'orizzonte. Da piccola sapevo sognare con stile, cercando di non strafare per poi rimanere delusa da ciò che sarei riuscita a conquistare. Poi, le cose non erano andate come speravo e così, per non aggiungere altra sofferenza a quella che già appesantiva il mio cuore, avevo rinunciato a essere una sognatrice. I sogni che avevo nascosto nel cassetto, però, erano troppo importanti per lasciarli in balia del mondo. Per questo avevo scelto di proteggerli in quel modo, così da poterli rispolverare nel caso in cui li avessi meritati nella realtà. Alcuni di essi non erano poi così segreti; erano costituiti dalla stessa trama di quelli che i miei coetanei avevano già visto avverarsi. Quando mi capitava di pensarci, mi sentivo piccolissima, insignificante e tornavo a essere il problema più grande del mondo.

Morfeo si era divertito parecchio a strattonarmi per bene. I miei occhi erano riusciti a chiudersi solo per poche ore, tanto che al risveglio mi era sembrato di aver attraversato, per giunta a nuoto, l'Oceano Atlantico. Una volta aperti gli occhi, ne avevo subito tutte le conseguenze; senza contare che, grazie a mia madre, avevo avuto l'occasione di provare, sulla mia pelle, l'ebrezza di un potente elettroshock:

«Forza un po' pelandronaaaa! Su che è già tardi, devi sbrigarti. Ci sono un sacco di cose da sistemare prima che io e tuo padre andiamo via, o vuoi fare tutto da sola? Dai, che almeno poi ti rilassi, prima che arrivi domani»

Con uno strattone aveva già afferrato la coperta dal letto, lasciandomi in compagnia di un brivido gelido. Con voce tremante le avevo risposto pregando fosse così gentile da togliere il disturbo, senza fare più di tanto rumore

«Ma-ma-ma dico, ti-ti-ti ha da-da-dato di volta il-il-il ce-ce-cervello? Lo-lo-lo sai che mi-mi-mi serve un po' di-di-di tempo pri-pri-prima di alzarmi»

Una boccaccia ed era stata congedata mentre, intenta a rannicchiarmi ancora nel letto, avevo stretto il cuscino tra le braccia, sperando mi concedesse ancora un po' di calore.

Il rito del risveglio non era mica una cosa da prendere alla leggera!?

Mi serviva il giusto tempo per far abituare i miei occhi alla luce del sole; convincere il mio corpo a dire addio al calduccio delle coperte poco alla volta; stiracchiarmi per bene, emettendo l'ultimo strano suono e, dopo aver conquistato la posizione eretta, senza rischiare un inciampo e finire con la faccia sul pavimento, correre, gridando "bagno in ostaggioooo", dove passavo almeno tre quarti d'ora.

Quella mattina, poi, era una questione di vita o di morte; così avevo prolungato le mie tempistiche, aggiungendo quindici minuti a ogni cosa da fare e anticipando la sveglia che, però, aveva disertato facendo andare in frantumi tutti i miei piani.

Cercavo di crogiolarmi ancora un po' prima di iniziare la mia giornata, quando, all'improvviso, mentre ero intenta a guardare il soffitto, mi era sembrato come se sul mio volto si fosse formato un timido sorriso. In tutta fretta mi ero precipitata davanti allo specchio per assicurarmi che non fosse solo una stupida percezione e guardando il mio riflesso, avevo potuto constatare di fatto che si trattava proprio di un sorriso. L'espressione da ebete era stata dovuta a un semplice avvenimento: durante l'estate ero riuscita a togliere l'apparecchio per i denti e dopo qualche settimana avevo deciso di togliere anche gli occhiali, ma ero talmente abituata a quelle trappole, che mi capitava spesso di dimenticare di non averle più sul viso. Inoltre, tutte le volte che mi guardavo allo specchio, attendevo inerme il suo critico giudizio: osservandomi, non vedevo altro che ogni mio singolo difetto, mentre i pregi finivano sconfitti in qualche angolo nascosto. Non ero capace di obiettare il giudizio di quello che, con il tempo, era diventato il mio peggior nemico, poiché, quando mi ci trovavo di fronte, era come essere di nuovo alla mercé della folla: dita puntate contro, lo sghignazzare che non riuscivo a contrastare, gli insulti e le battutacce pronunciate senza ritegno. Parole e gesti che avevano assunto potere sulla quotidianità, così come sul mio grado di autocritica, tanto da diventare verità assolute anche per me stessa.

HO SENTITO IL CIELO ENTRARE DENTRO DI MEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora