𝓒𝓪𝓹𝓲𝓽𝓸𝓵𝓸 𝓣𝓮𝓻𝔃𝓸

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Ero andata alla ricerca del come e del perché, fino a comprendere anche il quando fosse accaduto che la mia adolescenza dovesse rappresentare un così grande buco nero nella mia vita. Dopo aver ipotizzato ogni qualsivoglia strana combinazione tra eventi, destino e me, avevo trovato l'origine di tutti i miei mali, o almeno sembrava esserlo, se non fosse per lo strano paradosso che l'oggetto in questione fosse allo stesso modo anche il mio primo amore: il luogo che mi aveva visto crescere, un piccolo borgo nel cuore dell'Abruzzo, incastonato tra i monti come la perla che nasce tra i tessuti molli di un'ostrica. Per diverso tempo avevo tentato di tener acceso l'ultimo barlume di speranza che mi aiutava a non farmi devastare dal buio che mi dimorava dentro fino a quando era arrivato il momento, l'attimo in cui avrei voltato pagina. La mia esistenza era come trascorsa nelle pagine di un libro che non avevo scritto io; mi era sembrato di essere succube dello strano esperimento di un inconsueto scienziato che si divertiva a dimostrare le sue teorie su di una cavia.

Tra me e il paese si era pian piano instaurato un rapporto bidirezionale, vissuto tra amore e odio, una estrema simbiosi tra le cui screpolature si insinuava la devastazione dell'oblio. Come in un corpo scorre sangue ricco di ossigeno che dal cuore arriva a tutte le estremità, tornando indietro carico di anidrite carbonica, così era il mio vivere in quel luogo. Il mio ossigeno lo custodiva la natura; l'anidrite carbonica si sprigionava nelle relazioni sociali; il mio rifugio antiveleno era la mia stanza, dove provavo a disfarmi dell'ingestibile asfissia che, giorno dopo giorno, mi aveva reso prigioniera di un modus vivendi tetro e angoscioso. Era come se nelle terre confinanti con il borgo, fossero ancora presenti le antiche mura medievali che, però, invece di concorrere alla difesa, tramavano loschi piani per vedermi sconfitta. Avrei dovuto sconfiggere le sentinelle a guardia della roccaforte, ma non era così semplice assistere alla resa di così tante personalità che compattandosi erano divenute un mostro indistruttibile.

Non avendo la forza di combatterlo, continuavo ad essere succube degli sprezzanti commenti durante le ore scolastiche, per correre a rifugiarmi nella mia camera o tra i boschi, luoghi dai quali lasciavo che il resto del mondo rimanesse fuori. Nella mia mente, l'immagine del cunicolo che ogni prigioniero sogna di attraversare per conquistare di nuovo la libertà, si era fatta sempre più concreta, fino al momento in cui avevo scelto la Maschera come oggetto di difesa personale per eccellenza.

Pur provando la terribile sensazione di essere prigioniera di mura invalicabili, non erano di certo queste a fomentare la mia sete di ribellione; piuttosto ciò che mi stava stretta, era la mentalità ottusa della gente del posto. Mi turbava il fatto che, di generazione in generazione, i pensieri prevaricanti potessero continuare a percorrere sempre la stessa direzione, sfamandosi di malizia e viscidume, fino a farsi sempre più meschini e obsoleti. Tutto questo però mi ha portata, con il tempo, a comprendere sempre meglio, le sorti della decadenza demografica del luogo. Sempre meno anime a popolare le strette vie del centro e dal canto mio non avrei osato sfidare la volontà decisionale di quelli che si spingevano oltre i confini di quella realtà. Probabilmente non avrei contrariato, né tantomeno beffato, il coraggio di coloro che lasciavano il borgo, neppure fossi stata una dannata conservatrice; dopotutto però ero spinta dalla certezza che un giorno l'avrei fatto anch'io, dovevo solo attendere il sopraggiungere della giusta occasione. Il modello da prendere come punto di riferimento per comprendere al meglio, in cosa ci si potesse imbattere, anche solo semplicemente facendo quattro passi per le vie del paese, era l'individuo mediocre che invece di pensare a concetti di proprio interesse, si divertiva a ricamare storielle accattivanti sul povero malcapitato che gli passava dinnanzi. Era un po' l'hobby per eccellenza: pensieri infelici pronunciati da bocche senza alcun ritegno. Occhi curiosi dietro le tendine delle finestre, attirati dal vociare di passanti che battevano le viuzze del centro storico. Osservazioni attente e spigolose, da memorizzare in ogni più piccolo dettaglio, per poi riportarle all'attenzione di amichevoli interlocutori; punto d'incontro: il bar in piazzetta. Il centro polifunzionale di qualsiasi piccolo centro abitato. Luogo simbolo di chiacchiere e giocate a carte. La fonte da cui, tutti i pettegolezzi prendevano piede, una sorta di calderone in cui gli occhi dietro le tendine, rigettavano le informazioni raccolte per poi mescolarle e rivisitarle nei modi più fantasiosi, arricchendosi di volta in volta sempre di nuovi dettagli e spacciandosi quasi per vere e proprie leggende popolari. Oratori infallibili che solo mediante l'uso di poche parole, unite a una sempre più fervida immaginazione, creavano poemi su chiunque e qualsiasi cosa. Un bar, una secolare istituzione. Sempre aperto, mai rinnovato nella mobilia, un locale in cui, generazione dopo generazione, una sola famiglia lo aveva gestito. Passare di lì equivaleva al denudarsi completamente di qualsiasi veste, per essere ricoperti da stoffe cucite su misura, soprattutto dalle pettegole veterane del luogo: le variopinte declinazioni assegnate ai vari abitanti. Mai un complimento, solo critiche e disprezzo. Nessuno escluso, ognuno trascinato nel teatrino organizzato. Tutto questo stravolgeva il mio modo di essere docile e pacata, spingendo i miei pensieri verso l'indecenza. Non so dire quante volte mi sia capitato di meditare su cose ignobili nei riguardi di tali soggetti. Era più forte di me, sopportavo stringendo i denti, abbandonandomi a respiri profondi per ritrovare la calma, perché nell'intimo so bene che non si deve mai giudicare, ma restare in silenzio permettendo all'ignoranza e alla cattiveria di avere la meglio, mi pesava. Eppure si dice che il silenzio mortifichi più delle parole! Certo però che, non sono proprio sicura che quella gentaglia si sentisse così mortificata. Volentieri avrei agito come i francesi nei confronti del re Luigi XVI e della sua consorte, la regina Maria Antonietta, ma no, non è successo neppure nella mia mente, pur essendo sicura al mille per mille di essere capitata chissà quante volte sotto le loro grinfie, senza contare quelle giunte sin alle mie orecchie. Ciò di cui si discuteva spesso, sul mio conto, era il fatto che fossi sempre riservata, troppo silenziosa, che quando il paese si svuotava della presenza di turisti, io passeggiassi in completa solitudine e cosa che più gli arrovellava il cervello era non riuscire a capire il motivo per cui non avessi amicizie del posto. I poveri Anna e Fabrizio erano stati osservati nei più minimi dettagli, forse per sincerarsi non fossero alieni. Tra le varie ipotesi avallate, la più gettonata era quella che mi descriveva come un essere superiore e altezzoso che aveva paura di sporcarsi le mani con gli abitanti del borgo, poiché era certo li ritenessi inferiori a me. Pensare che invece era l'esatto opposto, mi ha fatto molto riflettere su quanto parlino a sproposito le persone e quanto non guardino con attenzione ciò che gli accade intorno.

HO SENTITO IL CIELO ENTRARE DENTRO DI MEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora