3. Fusione nucleare

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6 MARZO 2022

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H E L L E N

Essere in ritardo non mi è mai piaciuto, ma siccome mi trovo già da una settimana qui a Firenze, ormai ho imparato le basi della dolce vita italiana: fare tutto in modo lento, senza preoccuparsi troppo.

«Ciao, mamma» le stampo un bacio sulla guancia e scendo dalla macchina. «Oggi devi prendermi all'una e trenta. Non ti dimenticare.»

«Penso che ti verrà a prendere tua zia.»

Annuisco con la testa e mi faccio attraversare da un sollievo. Lei, siccome vive da più anni qui in Italia, è più abituata.

Quando entro nel liceo, mi accorgo di non essere l'unica in ritardo.

Fermo la prima ragazza che mi ritrovo davanti.

«Scusa, sapresti dirmi dove si trova la terza B. Liceo scientifico?» Penso che dall'accento si capisca che non sono italiana, ma l'unica cosa che mi preoccupa adesso è capire la sua risposta. Questa è semplicemente una frase che mi sono imparata a memoria.

«E alla fine del corridoio, su questo piano» la ragazza cerca di spiegarmi, indicandomi anche con le mani. Sicuramente non ha la mia stessa età, forse è dell'ultimo anno.

«Grazie» le dico e cerco di sorriderle, ma non dedico molto tempo a questo, inoltre sono già in ritardo di cinque minuti.

Mi metto a correre il più veloce possibile, cercando di arrivare in tempo.

Quando mi trovo davanti alla porta dell'aula, faccio un respiro e inizio a tirare la maniglia, ma dalla classe esce un ragazzo contro il quale sbatto.

Lui chiude la porta dietro di se e entrambi rimaniamo fuori.

Quando alza lo sguardo verso di me, mi accerto che si tratta di nuovo di lui.

«Adesso ti diverti pure a sbattere contro di me?» mi domanda in inglese.

«No, non l'ho fatto apposta.»

«Immagino» mi prende in giro. «La prossima volta stai attenta dove vai» mi raccomanda e continua verso l'esterno, forse è uscito perché doveva andare in bagno. Ma quindi sta anche in classe con me?

Faccio un altro respiro e tiro la maniglia. Questo volta mi trovo in classe, con gli sguardi di tutti addosso. Si tratta di una classe abbastanza numerosa. Così, velocemente, posso vedere circa una ventina di persone.

«Oh, ciao, tu sei Hellen Kravzova, esatto?»

«Sì» cerco di dire nel modo più italiano possibile, ma penso che dal nome si possa capire che non sono di qui.

«Va bene» annuisce la professoressa e mi fa segno di mettermi seduta. Non mi ha nemmeno chiesto perché sono in ritardo.

L'unico posto libero che c'è è proprio in prima fila e accanto a me c'è un banco incasinato. Scommetto che è il suo.

«Ascolta, Hellen» mi richiama la prof, dopo che mi sono messa seduta «adesso, come programma, stiamo introducendo la prima metà del Settecento. Capisci?»

Non tutto, ma annuisco con la testa.

«Ti ho stampato alcune fotocopie in inglese, così, magari, puoi seguire anche te. Va bene?» Annuisco di nuovo. «La tua prima lingua, invece, qual è?»

Nella classe si diffonde un momento di silenzio, che a me sembra durare un'eternità. «L'ucraino.»

«Ah, va bene. Vedrò se posso trovare qualche materiale in ucraino per lo studio della lingua italiana.»

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