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Non riesco a mangiare.

Digrigno i denti come quando sono nervosa, come quando mi concentro.

Come quando mi concentro, per trovare le parole più cariche di senso

al contempo impolverate, naturali,

come se le avessi tirate fuori dallo scaffale soltanto perché me lo chiedi,

e invece che regalo, che tu me lo chieda.

Tutta questa polvere mi acceca, non vedo al di sotto

della coltre della tua carriera,  dei tuoi studi, 

chi sei?

Chissà dove te ne vai, quando la parte di giorno in cui mi rintano finisce.

Chissà con che aria ti svegli, quando una mattina ordinaria,

metti domani, devi alzarti e salutare il sole.

Io, non riesco a mangiare.

E più ti vedo e ti evito, più trovi modi disparati per raggiungermi, per bloccarmi il senso di fame.

Il tuo pensiero mi nausea, non sogno i tuoi piedi scalzi sul fondo del letto

e non necessito di gesto carnale se non di uno scambio corrosivo tra le nostre anime.

Potessi epurarmi da questo fardello,

entrerei di nascosto in una piccola cappella agli angoli del paese, o in una cattedrale in centro città

pregherei tra i cori gregoriani per la redenzione.

Eppure, o forse per questo

Il tuo volto, sindrome di Stendhal

fa di una matassa di emozioni irrisolvibile il dono più crudele

e di un pianto torrenziale la cura palliativa per la tensione

la rabbia

la vergogna

perché al tuo cospetto mi sento che hai già visto tutto, e meno bella e meno intelligente del solito

anche se non è ciò che penso quando sei tu a inciampare sulle tue stesse parole, anche se la mia unica difesa è fingermi incurante. Quando non ricordo mai la voce di nessuno e la tua posso ripeterla a mente come un rosario.

Ti ho guardato le mani,

mentre mi porgevi quel caffè che a dirti la verità mi ha corroso le membra, ma mai dolore è stato più dolce

se non di quella bustina di zucchero divisa a metà.

Senza riguardi mi fai assaggiare il veleno,

e io ti ringrazio per somministrarlo a piccole dosi.

900 MinutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora