Questa è la storia di Livia Stone, una ragazza che ha sempre cercato rifugio nella musica a causa del suo passato sofferente che le ha creato cicatrici profonde. Nonostante la sua vita sembri ritornata normale, tutto cambia radicalmente quando si tr...
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"Listen to the music, feel it in your soul. It will heal you, make you whole."
- Tommy Chong, "Earache My Eye"
Dicono che la musica possa scacciare gli incubi, che una melodia possa essere una carezza nell'oscurità, un balsamo che lenisce le ferite invisibili dell'anima. Ma chi può dire con certezza se davvero riesca a sconfiggere le ombre che ci avvolgono? A volte, sono le stesse ombre a nutrirsi di noi, a trascinarci nel loro abisso silenzioso, in un labirinto senza porte e vie di fuga. Nel mio caso, la musica non era mai stata una salvezza, ma piuttosto un rifugio per i miei pensieri più oscuri, un angolo in cui nascondermi. Le note non risolvevano la sofferenza, ma la accompagnavano, come un amico inquietante che non riusciva a slegarsi da me, una mano tesa nell'abbraccio gelido di un mondo che spesso aveva scelto di ignorarmi, di voltarmi le spalle. In un certo senso, era una sorta di isola che, tuttavia, non si era mai davvero distaccata dal mare tempestoso in cui mi ero trovata a nuotare. Se la musica potesse veramente scacciare gli incubi, allora avrei dovuto vivere in un mondo dove le note sono l'unica realtà. Ma ciò che accadeva nella mia mente era ben diverso. Ogni suono, ogni armonia, non era che una discesa più profonda in un abisso senza fine. Eppure, ero ancora lì, persa in un labirinto in cui il tempo era sospeso, dove le ombre si intrecciavano con i miei ricordi e l'aria sembrava pesante come un sipario che non si sollevava mai. Mi ritrovavo a scuola, quel luogo che, in teoria, doveva essere un ambiente di apprendimento, ma che per me si era trasformato in una prigione, dove ogni passo era carico di minacce invisibili. I volti dei miei compagni erano ombre senza nome che mi osservavano con occhi che parlavano in un linguaggio che non riuscivo a decifrare, ma che sembravano voler affermare la mia estraneità. "Sei stupida!" gridava una voce, ma erano troppe, troppe per riuscire a distinguerle. Quelle parole risuonavano nella mia testa, affondando nel mio petto come un colpo violento, ma in qualche modo non mi sorprendevano. Dovevo aspettarmele, giusto? Ogni sorriso che ricevevo era solo una maschera che nascondeva l'odio che cresceva dentro di loro. Non c'era nulla di accogliente nei loro sguardi, solo disprezzo. Le loro parole erano affilate come lame che mi penetravano senza che potessi reagire. Le risate pungenti, le parole come spine; tutto ciò che mi restava erano lacerazioni, tagli invisibili sulla pelle e nell'anima. La presenza dei professori, silenziosi complici, con le loro parole che erano sentenze e i loro occhi che erano giudici, non faceva che aggravare il peso del mio essere lì, segnando la mia diversità come una condanna: "Fai schifo" era la sentenza più leggera, una condanna che non si scriveva su un foglio, ma si imprimeva a fuoco nel mio cuore. Non esisteva alcuna protezione da parte loro, nessun rifugio sicuro. Le loro parole, quelle risate, erano semplicemente un altro strato di indifferenza a un dolore che sembrava impossibile da dissipare. La mia pelle era sottile, troppo sottile per sopportare il peso di quelle parole, di quegli sguardi, di quei giudizi. Eppure, in mezzo al caos, il sogno non si spezzava, come vetro che si sbriciola, ma si trasformava, e mi ritrovavo catapultata indietro, sempre più in fondo, in un ricordo di un'infanzia che mi sfuggiva, che non sapevo se fosse più reale o frutto di un'illusione. I volti diventavano ombre indistinte, e mi ritrovavo nel buio. Ero una bambina, forse una versione più giovane di me stessa, inginocchiata nel buio più profondo, mentre le lacrime scivolavano lungo il viso senza una ragione, senza una spiegazione, senza sapere se c'era una causa o solo una realtà che si era scolpita nella mia carne, nel mio essere. C'era una sensazione di perdita, di abbandono, come se il tempo stesso mi avesse dimenticata. L'abbraccio della memoria era così pesante che mi impediva di muovermi. Le mie lacrime erano una lingua sconosciuta, ma mi parlavano di un dolore che andava oltre le parole. Mi sembrava di non riuscire a respirare, come se fossi immersa in un abisso senza fine, un luogo dove il tempo era sospeso e le risposte erano lontane. Poi, improvvisamente, nel silenzio del mio tormento e nella nebbia dei miei pensieri, una figura apparve. Era lì, solitaria, sfocata e incerta, come se appartenesse a un altro mondo, o forse a un altro sogno. Ma la sua presenza era tangibile, concreta. Era la figura di un bambino? No, forse di una bambina. Non potevo dirlo. Ma c'era una mano che si tendeva verso di me, e nella sua stretta c'era qualcosa di dolce, una promessa, un gesto di compassione che sembrava... irreale. "Chi sei tu?" chiesi, la voce che tremava. La risposta della figura fu un sorriso debole, che non aveva tempo, una luce che non conosceva ombre, quasi consapevole della mia confusione. La guardai, titubante, cercando di capire chi fosse questa figura, questa presenza che sfidava il vuoto. "Prendi queste cuffie," sussurrò, una voce che sembrava venire da un altro mondo, con una dolcezza che non avevo mai conosciuto. "Ascolta la musica, lascia che ti porti via da qui." Non so cosa mi spingesse a prenderle, forse era il desiderio di fuggire, forse il bisogno di credere che potesse esistere un altro mondo oltre a quello che mi tormentava. Non chiesi altro. Senza comprenderne appieno il significato, le presi. Le cuffie si stringevano tra le mani come una promessa; più che un oggetto, sembravano una chiave. Non per aprire una porta, ma per accedere a un altro livello di realtà, una dimensione che non era fatta di suoni, ma di silenzi. Un rifugio, un'isola in mezzo al caos. E quando finalmente le indossai, la musica si insinuò nelle mie orecchie, dolce come il respiro di un angelo, come una carezza gentile che cancellava il rumore di tutto ciò che mi circondava. Entrava nei miei pensieri come una melodia silenziosa che dissolveva le paure, che cancellava le grida, che trasformava il buio in un angolo sicuro. Il mondo scomparve. Era come se il suo sussurro fosse l'ultima parola che sentii prima che tutto il resto si aprisse in una nuova dimensione, un angolo nascosto del mondo dove tutto ciò che era lontano dalla pace e dalla serenità svaniva per un attimo. Per un momento, il dolore svanì, le ferite non erano più così forti. La confusione e la vergogna, svanirono. Non ero più sola, eppure mi ritrovavo a chiedermi se non stessi solo sognando. E mentre la melodia mi avvolgeva, il cuore che batteva forte nel petto e l'eco delle note mi cullavano, trovavo finalmente una pace che non avevo mai conosciuto. Forse, davvero, la musica era l'unica via d'uscita da questo incubo senza fine... Cercai di afferrare ciò che restava di quel momento fugace, l'ultimo frammento di quel sogno. Ma, come ogni sogno, tutto si dissolse, lasciando solo il ricordo di un abbraccio che non avrei voluto finisse mai, lasciandomi con le cuffie ancora tra le mani. Eppure, c'era una strana sensazione di incompiutezza. Lo sapevo. La musica non era la salvezza, non la risposta. Era solo un rimedio temporaneo, una maschera che non nascondeva il volto del male che rimaneva , immutato, al di sotto. Sapevo che ero ancora lì, in quel sogno da cui non riuscivo a lasciare, in quella scuola che non si era mai davvero allontanata dal mio pensiero, come una reliquia di un momento che era stato, ma che non poteva mai veramente esistere nel mondo della veglia. Forse, la mia vita era questo: un sogno senza fine, che non si dissolveva mai, un incubo che non avrebbe mai trovato mai un risveglio. E la musica, quella dolce e inafferrabile melodia, non era che un pallido riflesso di ciò che avrei voluto essere, un'eco lontana che mi teneva ancorata a un mondo che non era mai stato mio.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~ Nota dell'autrice:
Cari lettori,
Questo prologo è nato da un'esplorazione del dolore e di come, a volte, cerchiamo disperatamente qualcosa che ci aiuti a trovare un po' di pace. Livia, il personaggio principale, è intrappolata tra la realtà e il desiderio di fuggirne, ed è per questo che la musica diventa il suo rifugio. Ho cercato di renderla il più umana possibile, con tutte le sue fragilità e contraddizioni.
Mi chiedo: vi è mai capitato di trovare conforto in una canzone, in un suono, o in un semplice ricordo, quando tutto sembrava troppo difficile da sopportare? 🎶💭
Spero che, leggendo, vi sentiate un po' come Livia, sospesi tra il caos e la ricerca di tranquillità. Come vi è sembrato il suo viaggio interiore? Vi ha emozionato o vi ha fatto riflettere su qualcosa che avete vissuto? Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate, ogni pensiero è un tassello che mi aiuta a migliorare. ✨
Se c'è qualcosa che non vi è chiaro o che vorreste approfondire, scrivetemi! Mi piacerebbe tanto scoprire come avete vissuto questa lettura. 💬
Un abbraccio,
Lyra Storm
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