eco e narciso

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Fleur Gaubert aveva sempre amato la letteratura antica.
Seduta sul vecchio divano rivestito di pelle sfogliava le pagine delle opere di Euripide, immaginandosi di essere una di quelle sventurate protagoniste. Sognava una tragedia tutta sua, nella quale la sua vita fosse così importante da essere letta e riletta.
Le piacevano anche i romanzi, come a tutte le ragazze della sua età, ma il fascino di terre così lontane nel tempo era impossibile da ignorare. Non che la sua vita non fosse una tragedia, solo non era una che valesse la pena essere letta. A nessuno interessa di una bambola rotta. Era giunta alla conclusione che lei non sarebbe mai stata Elettra né Andromaca. Lei era Fleur, senza più la purezza del fiore, senza una storia da raccontare.
Oh, ma quanto amava Ovidio quella piccola ragazzina pallida che leggeva sempre raggomitolata, con le ginocchia strette al petto.
L'amore e il dolore la consumarono: a poco a poco il sangue le si sciolse nelle vene, il viso le divenne bianco come neve e in breve, il corpo della splendida fanciulla divenne trasparente al punto che non proiettava più ombra sul suolo. [1]

E lei aveva conosciuto un amore simile, prima di compiere i vent'anni, incontrato sul divano di pelle in un pomeriggio di maggio. L'aveva salvata e aveva ricomposto i cocci. Aveva conosciuto l'amore che ti toglie il fiato, che ti costringe a digiunare per giorni interi. Aveva conosciuto l'amore come un uragano che ti culla dolcemente travolgendo tutto il resto.
Il suo sangue, però, non si era sciolto. Il suo sangue era sgorgato sui ciottoli delle strade, aveva macchiato pavimenti e vestiti nuovi. Il suo corpo era scomparso tra le strade e la muffa di Montmartre, senza voce, senza ombra propria.
Aveva pianto le lacrime di una vita intera e aveva pianto finché lui non si era accorto nuovamente di lei, tra il fischiare di uomini e la musica che aleggiava densa come fumo.
Narciso era tornato e la sua triste Eco l'aveva accolto a braccia aperte.

Vincent Duvall la guarda trattenere il respiro mentre le appoggia un panno freddo sui lividi bluastri. Le domande che vorrebbe farle gli premono in gola come un nodo. Si è tolta i vestiti, ha indosso una vecchia camicia da notte trovata nei cassetti dell'armadio, la sua pelle pallida riflette la luce come fosse la Luna in carne ed ossa. Lei è seduta su uno sgabello e lui sul bordo del tavolo. Due bicchieri ancora sporchi di vino li guardano sfiorarsi delicatamente a vicenda.
Improvvisamente la ragazza emette un verso di dolore, Vincent solleva immediatamente la mano e la guarda preoccupato.
-Scusami.
-Cosa?
-Hai tolto la mano, ti ho offeso? Non devi aiutarmi se non vuoi.
-No, io... Mi sono spostato perché pensavo ti stessi facendo male premendo così.
-È vero, ma a te cosa interessa?
-Beh— il pittore la guarda inclinando la testa — se ti avessi voluto fare del male non ti avrei aperto la porta in primo luogo.
Fleur non risponde più. Abbassa la testa e si guarda i piedi spogli percorsi da piccole vene azzurre. Sembrano una miriade di fiumi che scorrono inesorabilmente verso una foce che non esiste.
Passano alcuni minuti, poi silenzio è spezzato nuovamente da Fleur.
-Sono bella, signor pittore?
-Sì, lo sei.
-Sono bella anche con i lividi sugli zigomi e sulle braccia?
-Sì.
-Anche se ho le unghie rotte, un sopracciglio spaccato e i capelli in disordine?
-Sì, Fleur, per me sei bella.
-Gli uomini sono tutti bugiardi, aveva ragione mia madre quando mi diceva di non fidarmi.
-Allora perché mi fai domande delle quali sai già le risposte?
- J'ai envie de pleurer et je ne veux pas que tu me voies recommencer. [2] Ho bisogno di sentirmi dire quelle parole.
-Le donne sono tutte vanitose, aveva ragione mio padre.
-Non è vanità.
-Che cos'è allora?
-La mia bellezza è quello che ho da offrire sia a te che al mondo là fuori. Se scompare, sarò solo un guscio vuoto di ciò che sono stata un tempo. È più forte di me, chér, cercare di apparire e dimenticare che sotto questa carne si trovi anche un'anima. Sola, triste e calpestata, ma c'è ancora.

Oh, Fleur.
Vincent sente di non riuscire più a parlare. Gli pizzicano gli occhi e vorrebbe piangere. Si alza buttando lo straccio sul tavolo e le prende entrambe le mani nelle sue.
-Hai bevuto troppo, è meglio se ti sdrai e provi a dormire.
La ragazza annuisce, alzandosi in piedi a sua volta.
-Sì, hai ragione.

La accompagna sul suo letto di cui adesso si vergogna terribilmente. È un materasso poggiato per terra coperto da alcune lenzuola che non ricorda quando siano state lavate l'ultima volta. Ma l'unica cosa che Fleur nota e che si china a raccogliere è un piccolo orsacchiotto di pezza caduto per sbaglio dal bordo del materasso. Ha due bottoni come occhi e i bordi sono sfilacciati.
-Da dove arriva?
-È mio.
Vincent sente le guance avvampare d'imbarazzo. Lei si volta, il pupazzo stretto al petto e un sorriso che le illumina il viso.
-Posso tenerlo, signor pittore? Mh, posso? Solo per stanotte.
Annuisce, confuso, troppo contento di vederla felice. Non si sente più giudicato da lei ma anzi, sembra una bambina.
Il suo cuore è colmo di tenerezza.
La copre con le coperte e si allontana per lasciarle un po' di spazio. Chiude la luce, tenendo per sé solo una candela che posa sul davanzale. Si accende una sigaretta, evitando di girarsi indietro a guardare la ragazza.

La cenere vola trasportata dal vento. Tutto è silenzioso, nella stanza si sente lo schricchiolare del legno sotto il peso di Fleur che si rigira nel letto.
Chissà cosa starà sognando, si chiede Vincent. Chissà cosa le è successo quella notte. È così sola da aver pensato subito a lui in una situazione tale? Lui le dà l'idea di sentirsi protetta? Espira profondamente. La testa gli fa male, schiacciata dalla quantità di pensieri che le ronzano dentro come mosche impazzite e, per quanto si sforzi, non riesce a coglierne neanche uno con chiarezza. Si appoggia al davanzale di legno e chiude gli occhi.

La luce del sole lo colpisce direttamente sulle palpebre chiuse, colorandole di rosso. Sussulta e si alza in pedi, la testa che gira come una trottola. Si è addormentato sullo sgabello, con la guancia appoggiata contro la cornice della finestra.
-Ben svegliato, cher Vincent.
La voce di Fleur lo fa sobbalzare una seconda volta. Il suo viso appena sveglio al mattino, ben più accecante del sole, lo coglie di sorpresa. Ha i capelli biondi arruffati, la camicia da notte fuori posto e gli occhi ancora socchiusi.
-Ferma.
Si dirige a passi larghi verso le sue tele, ne prende una e la posiziona sul cavalletto.
-Ferma così, non ti muovere.
Fleur respira a malapena, un sorriso sulle labbra. Solleva la camicia da notte fino a mostrare una delle sue cosce color madreperla.
-Così va bene?— chiede ridendo sottovoce.
Vincent annuisce da dietro la tela, mente mischia freneticamente i colori. Ha paura scompaia, da un momento all'altro.

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[1] traduzione di un passo tratto dal mito di Eco e Narciso contenuto nelle "Metamorfosi" di Ovidio.
[2] traduzione dal francese: "mi viene da piangere e non voglio che tu mi veda ricominciare a farlo".

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