Capitolo n.1

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Il vento batte contro le finestre e la pioggia scende lungo il vetro, facendo un percorso tutto suo, a zig zag.
È novembre, e Deva, per la terza volta questa settimana, non ha sentito la sveglia suonare.
Apre lentamente gli occhi e si alza di scatto quando se ne rende conto, correndo verso il bagno per prepararsi.
Si guarda allo specchio, il trucco della sera precedente ancora sul suo viso stanco.
Ma non ha tempo per struccarsi, perciò si lava i denti e poi torna in camera per dare un'occhiata al suo guardaroba.
Prende una semplice camicetta e dei pantaloncini e conclude con le sue solite scarpe da ginnastica.
Scende al piano di sotto e, nel processo, si sistema i capelli nel miglior modo possibile.
Quando arriva in cucina, trova Amber, la sua coinquilina, appoggiata contro il bancone.
"Che strano... hai fatto tardi anche oggi."
Lei sbuffa.
"Potevi svegliarmi, però."
Amber si fa beffe e si versa del caffè.
"E tu potevi andare a dormire prima."
Deva fa una smorfia e prende la tazza nella quale Amber ha versato il caffè, bevendone un po'.
"Ehi!"
Lei sorride e si lecca le labbra, poggiando di nuovo la tazza sul bancone.
"Ci vediamo stasera."
E senza aspettare una risposta, prende la sua borsa ed esce di casa.
Sale in macchina e mette in moto, uscendo maldestramente dal vialetto e dirigendosi verso il suo studio, pronta per una nuova giornata di lavoro.

Una volta arrivata, sale le scale e trova uno dei suoi pazienti in sala d'attesa.

Deva è una psicologa da ormai due anni, ed è sempre stata piuttosto responsabile, ma ultimamente non riesce a prendere sul serio quello che ama di più: aiutare i suoi pazienti a curare ferite che non sono visibili ad occhio nudo.

"Dottoressa, sono qui da mezz'ora! Mi stavo preoccupando!" Dice, iniziando a giocare nervosamente con l'orlo della maglia.
Jacob è uno dei suoi pazienti preferiti: alto, capelli lunghi e neri raccolti in un codino, un piccolo tatuaggio sul collo e i vestiti sempre molto larghi.
"Scusami, c'era traffico." Risponde casualmente Deva, prendendo le chiavi e aprendo la porta.
"Vieni, accomodati. Iniziamo con la seduta."
Jacob annuisce, ancora agitato, ed entra.
Lei lo guarda con un piccolo sorriso, come per rassicurarlo, poi si siede alla sua scrivania e porta una gamba sopra l'altra.
"Allora... che ne dici di parlarmi di come hai passato il weekend?"
Lui distoglie lo sguardo, le sue gambe tremano.
"È stato un disastro.
Ho sentito i miei genitori fare le loro cose.
Disgustoso."
Deva alza le sopracciglia e cerca di trattenere un sorriso.
"È stato così riprovevole?"
Lui sorride leggermente e annuisce.
"So che vorrebbe ridere, e può farlo."
Lei scuote la testa e ricambia il sorriso.
"Beh, non mi è mai capitato di parlare con un paziente di questo genere di cose, ma se ti turba così tanto, sfogati pure."
Torna a guardarla e alza le spalle.
"No, voglio risparmiarle i dettagli."
Deva sorride ulteriormente e annuisce.
"Ne sono sollevata, allora."
E a questo punto, il silenzio prende il controllo della situazione, la pioggia e il vento l'unica cosa a tenere vivo l'incontro.
Deva attende qualche istante e continua a guardarlo, come per testare la sua espressione, ma prima che possa dire qualcosa, lui parla.
"Mi piace un ragazzo e non so come dirlo ai miei."
Lei, colta alla sprovvista, lo guarda con attenzione e risponde.
"Perché?"
"Perché sarebbe una cosa nuova per loro.
Non so come potrebbero reagire, e non vale la pena parlarne."
"Non ne vale la pena?"
"No." Dice schietto.
"Perché?"
"Perché non credo di piacergli, e sarebbe stupido rovinare il rapporto che ho con i miei genitori per un ragazzo che non mi vuole nemmeno."
Lei sospira e poggia i gomiti sulla scrivania, intrecciando le dita e poggiando il mento sul dorso della mano.
"Hai già parlato con questo ragazzo?"
Jacob distoglie di nuovo lo sguardo e scuote debolmente la testa, un po' abbattuto.
"No. Ci guardiamo e basta.
Mi sento stupido per questo."
Deva sorride leggermente e scuote la testa.
"Allora dovresti pensare a Dante quando ti senti stupido."
Jacob cerca di trattenere un sorrisetto, ma fallisce.
Lei lo guarda ancora, poi torna a parlare.
"E comunque non c'è niente di stupido nell'essersi preso una cotta per un ragazzo con il quale ci si scambia qualche sguardo.
Ma è senza dubbio stupido essere così pessimista quando non avete fatto altro che guardarvi, senza esservi scambiati nemmeno una parola.
Magari potrebbe voler conoscerti per un semplice rapporto d'amicizia o per altro. Questo è tutto da vedere."
"E ai miei genitori come..."
Deva lo interrompe.
"Per quanto riguarda i tuoi genitori, è giusto che tu voglia aspettare, ma prendersi del tempo non significa sottovalutare la situazione e parlarne solo qualora dovessi avere una relazione con lui o con chiunque altro.
È evidente che tu sia confuso, ma è altrettanto evidente che tu sia consapevole della tua attrazione fisica per i ragazzi, no?"
Jacob sospira e torna a guardarla.
"Sì."
"Bene." Dice.
"Ma secondo lei è sbagliato?"
"Cosa? Amare? No, non credo."
Jacob sorride. Un po' sollevato, in realtà.
"Posso farle una domanda un po' personale?"
Lei lo guarda e si appoggia allo schienale della sedia, portando le mani in grembo e intrecciando le dita.
"Dipende. Tu prova."
"Ha mai avuto dubbi, sessualmente parlando?"
Deva sospira e un sorriso al contrario si diffonde sul suo viso.
"Da piccola avevo una cotta per la mia babysitter.
Pensi che valga come risposta?"
"Sì."
"Bene."
Cala di nuovo il silenzio, e ad un certo punto Jacob ridacchia.
"È la prima persona che incontro ad indossare i pantaloncini a novembre.
È buffo."
Deva si guarda brevemente le gambe e ridacchia anche lei.
"Lo so. Per me l'inverno è come l'estate e l'estate come l'inverno. Non farci caso."
Lui annuisce con un piccolo sorriso e la seduta prosegue, a volte interrotta da parole non dette.

Una volta terminata, Jacob poggia i soldi sulla scrivania e si avvicina per un abbraccio.
"Grazie." Sussura prima di andare via.
Deva lo guarda uscire dallo studio con fretta e un piccolo sorriso le tira gli angoli delle labbra mentre torna a sedersi.
Manca poco alla prossima seduta, e questa volta deve incontrare un nuovo paziente.
Guarda l'orario e aspetta, controllando i diversi appuntamenti sulla propria agenda: mancano venti minuti al suo arrivo.

Resta lì a guardare le gocce di pioggia che giocano sui vetri della stanza in silenzio, il tempo che passa e il campanello che suona.
È lui.

AMOR AMARA DATDove le storie prendono vita. Scoprilo ora