6- Addio, auto dei miei sogni

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Le urla di aiuto più disperate

sono variopinte su tele bianche.

Sono veraci richieste

di cui non esiste prova

più concreta del loro rumore.

Sono mille le disperate volte

in cui ho porto la mano

al quadro della solitudine

ricevendo solo vernice bianca.

Andra Indivar Veleda


Camillo

Sono due le cose a cui lascio difficilmente prendere il controllo: paura e, più intesa come "goffaggine", l'incapacità. Tutti ritengono che queste si manifestino simultaneamente. Io non sono mai stato d'accordo con questa colossale stronzata, perché non ho mai lasciato che la prima limitasse la mia competenza. Adesso, invece, mi trovo d'accordo con tutti i saggi che mettono bocca su ciò che non hanno mai sperimentato, perché la zona su cui il fuoco divampa vigoroso è anche quella di casa mia.

Guido senza una meta, cercando solo una via di fuga che non esiste.

«Papà», tenta suo figlio con voce soffocata, ma invano, perché Gavriel ha gli occhi chiusi, disinteressato al da farsi solo per potersi dedicare a cercare, tra i cassetti della guerra, una speranza di sopravvivenza.

I miei occhi partono per un giro di circospezione lungo l'interno dell'auto, soffermandosi sul volto della madre. In volto è paonazza, ed è evidentemente indecisa sul se prendere parola o no.

«Siamo tutti d'accordo su..», avvia la donna, respingendo quello che stava per essere un nuovo tentativo da parte del figlio per riportare il padre alla realtà. Ma la interrompo, cercando di allontanare l'imbarazzo che non fa altro che appesantire la paura di cui già tutti siamo irrimediabilmente schiavi.

«Si, ma non vi lascerò morire stanotte», confermo, promettendo l'unica cosa al mondo di cui non ho certezze.

«Dove ci stai portando?», domanda il ragazzo, non mascherando il tono di paura con il quale accentua le parole. Per persone come me, momenti del genere aiutano davvero molto ad inquadrare le persone, ormai contestualizzate nei loro peggiori incubi. Proprio osservare mi consente di sapere cosa fare per fingere meglio.

Esito prima di dare lui una risposta, ma, avendo fatto una promessa, il mio cervello deve elaborarla al più presto. Spazio, spazio, spazio e, riflettendo su l'unica alternativa possibile:

«Andra. Andiamo a casa di Andra».

La macchina ha raggiunto la velocità massima dopo l'ennesima pausa dovuta ai tratti trafficati. È struggente pensare che, fino a diversi minuti fa, tutti quelli alla guida delle proprie macchine in fuga erano convinti che avrebbero passato la loro notte a divertirsi.

Incrociando nuovamente il Rehab, noto di sfuggita una massa di panico vivente che si configura sui volti delle persone che tentano di nascondersi. Sanno che per loro è tardi, e sarebbero dovuti darsela a gambe prima. Posso solo limitarmi a sperare che l'esercito nemico risparmi i civili.

Fanculo alla speranza, quando è la prima ad essere circoscritta in guerra. Impazzisco al solo pensiero di dover subire ed impormi di non poter fare nulla.

La prima cosa che avvisto, non appena distolgo lo sguardo dal luogo destinato ad ospitare una strage, sono i carri armati italiani e diversi fanti che vi corrono intorno.

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