Bentornato

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Manuel si lasciò cadere pesantemente su una delle sedie di plastica della sala d'attesa, lanciando un'occhiata irritata al grande schermo delle partenze che ancora non mostrava il numero del suo gate. Ogni volta la stessa storia, pensò con un sospiro.
Non riusciva a capire come qualcuno potesse trovare affascinante l'aeroporto, questo luogo che sembrava progettato apposta per mettere alla prova la pazienza delle persone.
Il rumore di fondo lo infastidiva: un miscuglio di annunci metallici, conversazioni frammentarie, e il ronzio costante delle ruote delle valigie trascinate su e giù per i corridoi. L'aria era un misto di odori poco invitanti: caffè bruciato, cibo da fast food, e quel particolare aroma sterile e artificiale che si sente solo nei luoghi troppo puliti e affollati allo stesso tempo.

Lui odiava tutto di questo posto. Le file interminabili, le persone che ti spingono pur di guadagnare qualche metro, il sorriso falso del personale di sicurezza, come se un sorriso potesse davvero far dimenticare quanto tutto fosse lento e macchinoso. E poi, c'era quell'inutile attesa per il numero del gate, come se l'informazione dovesse essere tenuta segreta fino all'ultimo secondo, solo per aggiungere un po' di tensione a un'esperienza già di per sé stressante.

Manuel cercò di distrarsi con il telefono, ma anche quella sembrava un'impresa impossibile: il Wi-Fi dell'aeroporto continuava a cadere, e l'idea di pagare una cifra assurda per qualche minuto di connessione decente gli pareva un'ulteriore presa in giro. Decise quindi di chiudere gli occhi per un momento, cercando di ignorare tutto il resto, ma la voce stridula di un bambino che piangeva a pochi metri di distanza lo riportò alla realtà.

La pioggia sbatteva violenta contro le grandi vetrate dell'aeroporto, le gocce si rincorrevano lungo i vetri, trascinando scie irregolari.
Era la fine di agosto, l'estate stava sfuggendo via, un po' come l'acqua che scivolava lungo la superficie trasparente.
Fuori il cielo era grigio e pesante, coperto da nuvole che sembravano non aver nessuna intenzione di spostarsi.

Manuel non poteva far a meno di sentire una stretta al petto: qualcosa aveva un sapore diverso, e non si parlava dell'aria stantia tipica del posto.
Un senso di angoscia e confusione dominava la mente del ragazzo, che guardando il cielo, vide come questo si sposasse perfettamente con i suoi pensieri.

Dopo mesi lontano da casa, stava per far ritorno nella città di travertino, il posto che più al mondo aveva amato e odiato nei suoi ventun anni di vita.
Erano mesi che non ci faceva ritorno, e ora che il momento si avvicinava, l' ansia cresceva a dismisura, mangiandolo dentro come un tarlo.

Roma, la città che aveva lasciato subito dopo la maturità, era stata il suo rifugio e, allo stesso tempo, il luogo da cui aveva sentito il bisogno di scappare.

Ma la fuga non può continuare in eterno, c'è un momento dove si torna al punto di partenza, e questo era finalmente giunto.

Due settimane prima Manuel, sentendosi stufo di una vita che in realtà non aveva mai sentita sua, prese un biglietto solo andata verso casa, pronto a ricominciare da zero nella capitale.
Quando Anita, sua madre, era venuta a sapere del piano del figlio, non era riuscita a non far trasparire la felicità dalla sua voce facendo sorridere il figlio dall'altro capo del telefono. Lei non l'aveva mai detto esplicitamente, ma Manuel sapeva quanto desiderasse rivederlo, quanto sperasse in quel ritorno, tanto che negli ultimi giorni, le sue chiamate si erano fatte più frequenti, come se volesse accorciare la distanza tra loro un po' alla volta.

E in quel momento con uno zaino in spalla e una valigia alla mano, aveva lasciato Cesare, l'unico con cui era riuscito a creare un legame vero, e il loro appartamento a Torino, pronto a proseguire la facoltà di filosofia a Roma.

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