Nel tumultuoso scenario del 1564, l'Impero Ottomano estende le sue spire su un già vasto dominio grazie alla violenza e alla sottomissione. Contemporaneamente, in un remoto villaggio di montagna che sorge nella valle del Kuban, il giovane sedicenne...
"In guerra gli eventi importanti sono il risultato di cause banali." - Giulio Cesare
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La valle del Kuban, ancora avvolta nelle ombre della notte, si destava sotto il tocco delicato del sole nascente. L'alba si insinuava tra le montagne, ad accarezzare le vette innevate con pennellate di luce dorata. L'aria era fresca, punteggiata dal profumo dei pini e della rugiada, mentre il canto degli usignoli echeggiava tra i pendii. Il villaggio di Berkhiz, incastonato come una gemma grezza tra le alture, cominciava a sussurrare i primi vagiti, risvegliato dal calore del nuovo giorno.
Il fiume Kuban, che prendeva nome dalla valle in cui riposava il suo letto, gorgogliava zampillando attraverso le colline, intento a discendere dal monte Elbrus per alcuni chilometri a valle in direzione della città di Armavir e poi a ovest, puntando verso il mar d'Azov, nei pressi della cittadina di Temrjuk.
In lontananza, invece, s'intravedeva il Volga, il cuore del più ampio bacino fluviale del continente. Ma nessuno s'era mai azzardato ad avvicinarsi troppo per timore di annegare fra le sue acque scure.
Iskander a quell'ora si trovava già nei campi, osservava il gregge di pecore pascolare. Aveva da poco compiuto sedici anni: la corporatura stava iniziando a farsi più piena, appena matura, eppure si sentiva già un adulto in piena regola, mentre dondolava il bastone per aria e saltava a piè pari le pozzanghere acquitrinose. I suoi capelli scuri, tagliati corti, si confondevano con l'ombra delle montagne; gli occhi, invece, neri come l'ossidiana, riflettevano il cielo limpido sopra di lui.
Suo padre, Tigran, un uomo alto e robusto con una barba folta che mostrava i primi segni di senilità, si muoveva accanto a lui con la sicurezza di chi conosceva ogni angolo di quella terra aspra e incolta.
Tigran era stato un soldato una volta, l'ultimo successore del popolo Karačaj: guerrieri discendenti degli Alani, un gruppo di nomadi, bellicosi e pastori che condividendo una cultura comune. Si era ritirato dalle battaglie dopo la nascita di Iskander, suo unico erede, e in seguito alla morte della moglie Khezia aveva piantato la propria ancora proprio tra i pendii scoscesi del Kuban.
In quella mattina di primavera, mentre il vento leggero trasportava l'eco del Volga, Tigran osservava Iskander con orgoglio: gli aveva insegnato a tirare con l'arco e a combattere con il vincastro, a maneggiarlo come fosse stata l'elsa di una spada, per allontanare lupi e cani randagi, ma anche per difendersi da eventuali pericoli. Fin da bambino gli aveva infatti raccontato di storie di villaggi saccheggiati e razzie perseguite dai Barbari, anche se il giovane non ci aveva mai creduto troppo perché Berkhiz era sempre stato un villaggio pacifico, cauto nella scelta dei propri alleati.
« Le pecore sembrano irrequiete oggi. » Iskander ruppe il silenzio tra di loro. Aveva notato un comportamento insolito negli animali: un'ansia diffusa, mentre annusavano l'aria e alzavano le teste con allarmato sentore.