3. Il diario delle rivelazioni non richieste

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LILITH'S POV

Il giorno della partenza vengo svegliata dolcemente da Nyx.

O almeno questo è ciò che mi piacerebbe poter dire.

In realtà, mi sveglia di soprassalto, urlando dal piano di sotto con una voce che potrebbe competere con i 300 decibel della storica esplosione del vulcano Krakatoa. È un po' come se il vulcano, il quale vanta il secondo posto dei suoni più forti mai sentiti, avesse deciso di eruttare nuovamente, solo che stavolta l'onda d'urto è fatta di note stonate che rimbalzano per tutta la casa

Dalla poche parole che riesco a distinguere, sembra che Nyx stia tentando di cantare canzoni di Taylor Swift.

Considerando la durata della tortura, immagino stia replicando il The Eras Tour; il che sarebbe fantastico, se solo non fosse stonato quanto un gorilla afono.

Affondo il viso nel cuscino, sperando che l'asfissia mi risparmi questa agonia. Se Dante avesse conosciuto Nyx, avrebbe aggiunto un girone all'Inferno, dedicato a chiunque meriti di soffrire la tortura di sentirlo cantare. Anche se, onestamente, credo che persino i dannati non meritino un simile supplizio.

Mi trascino fuori dal letto con l'entusiasmo di Giulio Cesare il giorno delle Idi di Marzo, e mi avvio verso il bagno. Un risveglio del genere è proprio quello che ci voleva dopo un'altra notte insonne. A questo punto, persino gli ansiolitici che prendo non sembrano più in grado di regolare il mio ciclo sonno-veglia.

Ottimo.

Una volta davanti lo specchio mi rendo conto di quanto la mia faccia sia un disastro completo. Gli occhi cerulei, che mi permettono di vantarmi di essere stata l'unica dei tre fratelli ad averli ereditati da mamma, sono appesantiti da occhiaie violacee che sembrano aver preso residenza permanente. Le mie labbra, una volta piene e definite, sono ora screpolate e segnate dai morsi nervosi con cui le torturo senza rendermene conto. E per concludere, la mia pelle è talmente secca che potrebbe fare concorrenza alla cartapesta, mentre ciò che mi ritrovo in testa assomiglia più a un nido di piccioni che a dei capelli.

Mi infilo rapidamente in doccia, sperando che l'acqua calcarea dei sobborghi di New York faccia lo stesso effetto di uno scrub naturale; dopotutto, il calcare non è così diverso dall'argilla usata in cosmetica, no?

Mentre l'acqua scorre sul mio corpo, un senso di fastidio e inquietudine comincia a farsi strada dentro di me. Nella lunga lista di "traumi che adoro ignorare ma che finiscono comunque per fottermi la testa", c'è il rituale della doccia. Dopo la morte dei miei genitori, ho attraversato periodi di depressione così profondi da ridurre la mia esistenza a quella di un vegetale.

Tra le funzioni vitali che dimenticavo di eseguire in quei momenti, come dormire o mangiare, c'era anche lavarmi. Ogni crisi sembrava una sfida a vegetare nel letto più a lungo della precedente. Lavarmi significava percepire il mio corpo, sentire qualcosa, e questo era esattamente ciò che volevo evitare.

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