Capitolo Diciassette - Il Lavoro Da Alla Testa

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Lo studio di avvocati per il quale lavora Giuliano è, ovviamente, poco distante dal tribunale, ci mettiamo solo pochi minuti a piedi ad arrivare, è uno di quei palazzoni nuovi e super moderni che sembra quasi di stare a Milano.

Personalmente preferisco di gran lunga lo stile classico del palazzo della casa editrice, ma l’uomo in carriera troppo impegnato ha insistito per lavorare da lui oggi e quindi lo seguo dentro l’ascensore in cui entrano altre tre persone con noi che gli stringono la mano e lo salutano adoranti, manco fosse il papa. Lui neanche fa lo sforzo di presentarmi, come se in questo abitacolo non ci sia nemmeno.

«Buongiorno, Letizia» arrivati al piano e usciti dall’ascensore saluta cordiale la segretaria fasciata in un tailleur nero con gonna a cui si illumina lo sguardo quando lo vede.

«Buongiorno, avvocato Serafini» la voce è anche più adorante del suo sguardo. «Hanno chiamato tre clienti per lei, le ho lasciato i messaggi sulla sua scrivania.»

«Grazie, Letizia, sei sempre indispensabile» la loda lui con quel fare affascinante che fa tremare le ginocchia.

Lei sbatte le ciglia e forse ha smesso di respirare e sta andando in iperventilazione, perché fa fatica a mettere insieme due parole. «Solo… il mio lavoro, avvocato.»

Mi sforzo di non alzare gli occhi al cielo mentre lo seguo lungo un corridoio fatto di stanze completamente a specchio, piene di gente seduta dietro le scrivanie che ha un’aria severa e anche un po’ triste. Niente a che vedere con l’atmosfera che si respira in casa editrice.

Mi rendo conto sempre di più che io e Giuliano apparteniamo a due mondi diversi.

«Prego.» Apre l’ultima porta in fondo a destra, l’unica che è formata da pareti vere e non a vetro, la porta è in legno, cozza un po’ con tutto il resto, infatti resto lì a guardare la stanza nella semioscurità e poi guardo le altre.

«Mi piace avere la mia privacy» spiega lui abbassando la voce di un’ottava.

Mi schiarisco la gola e mi decido ad entrare sfilandogli davanti. Accende la luce e mi guardo intorno in questo ambiente che sa proprio di lui e non solo perché il suo profumo che sa di cuoio e agrumi è impresso nelle pareti bianche, ma perché regna un ordine quasi maniacale., tanto da farmi venire un tic all’occhio: tutto questa mania di ordine mi mette in ansia.

Vorrei prendere l’unico cuscino sul divano in pelle nera e gettarlo a terra, o scombinare tutte le penne sulla scrivania. Almeno dalla grande finestra dietro la sua sedia si vede uno scorcio delle strade di Roma, quello mi fa tornare un po’ a respirare.

Giuliano richiude la porta alle mie spalle e adesso è lui che mi sfila davanti e mi sforzo di non fissarlo ancora, non potrei reggere che mi beccasse di nuovo. Così fingo di osservare la stanza mentre con la coda dell’occhio lo vedo togliersi la giacca e posarla sulla spalliera della sedia, poi, giusto per mettere a dura prova la mia integrità mentale – e morale – allenta la cravatta e si sfibbia i primi bottoni della camicia bianca per poi fare lo stesso con i gemelli ai polsi e per finire si arrotola le maniche scoprendo le sue braccia muscolose e piene di vene che sono un attentato al mio basso ventre.

Smetto di guardarlo solo con la coda dell’occhio e focalizzo tutta la mia attenzione su di lui perché si sta muovendo e sta venendo nella mia direzione, solo che all’ultimo si scansa sfiorandomi con il suo corpo e lo seguo con lo sguardo mentre si avvicina al tavolino accanto al divano che è pieno di liquori e bicchieri di vetro. Ne prende uno che sembra Whisky e se ne versa due dita in un bicchiere per scolarselo tutto d’un fiato, per poi leccarsi le labbra piene.

Si limita a una smorfia e poi se ne versa altre due dita, ma prima di scolarsi anche questo sembra ricordarsi che ci sono anche io nella stanza, così punta le sue iridi verdi su di me. «Vuoi?» si limita a domandare.

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