Capitolo 5

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5.


Dire che tentai di farmi ridare da Alex la mia penna rosa, nel corso di quegli anni passati assieme, sarebbe un eufemismo.

Alex la teneva come una preziosa reliquia dentro una scatola di legno di sambuco, neanche stesse difendendo i gioielli della Corona Britannica.

Per anni mi domandai cosa ci trovasse di così interessante nel voler tenere a tutti i costi una penna della mia coda.

Ovviamente lui non sapeva che era mia; pensava fosse di qualche uccello che noi non conoscevamo, ma la faccenda rimaneva: che gusto ci trovava?

Ogni qualvolta visitai la sua camera, in quegli anni di crescita e scoperta, la mia mente favoleggiò nel tentativo di comprendere cosa spingesse Alex a raccogliere tutto ciò che colpiva la sua attenzione.

Zia Beth, letteralmente, era ossessionata dalla collezione in rapida crescita del figlio primogenito, ma non perché toccasse a lei ripulire tutta quella stramba accozzaglia di oggetti così disparati.

Come me non comprese mai il senso di quella disparata montagna di oggetti – perfettamente conservati, per carità! – e le uniche risposte laconiche di Alex furono sempre "mi piacciono" o "non sono affari vostri".

Certo, la mia penna remigante stava meglio nella sua scatoletta lignea che sotto le lenti di un microscopio.

Il fatto che qualcosa di mia proprietà fosse al di fuori del mio controllo, però, mi urtò sempre, soprattutto perché niente di ciò che mi apparteneva era mai abbastanza al sicuro, abbastanza protetto, visti i tempi in cui vivevo.

Non solo la mia storia era stata talmente tanto favoleggiata che i ragazzi della scuola media mi chiamavano 'la ragazza delle fate'.

Il mio aspetto non aiutava a cancellare quello stupido nomignolo, purtroppo.

A quattordici anni ero piccola di statura, e di sicuro non sarei mai diventata alta, questo lo sapevo, ma incarnavo l'archetipo fantasy del folletto boschivo.

Quando ero nata la prima volta, la mia altezza era stata ritenuta esemplare per una donna.

Negli anni novanta, essere alte un metro e sessanta circa non corrispondeva, esattamente, a un'altezza fuori dal comune e io sapevo già che, più di quella metratura, non sarei cresciuta.

Ma non era la mia bassa statura a incuriosire.

Erano piuttosto il mio viso cesellato, la pelle eburnea e priva di difetti, i capelli mossi e rosso Tiziano, gli occhi simili a quelli di un gatto, dal taglio leggermente felino e naturalmente grandi e misteriosi.

Ero bella ma, più di tutto, ero perfetta sotto qualsiasi punto di vista estetico.

Anche troppo, forse, e non lo dico per vanteria, ma perché è un dato di fatto.

La Fenice è davvero perfetta.

Ella non ha difetti fisici di alcun genere e perciò, agli occhi di un qualsiasi essere umano, la perfezione metrica del mio volto colpisce anche senza volere.

A tutto questo, poi, si aggiunse anche un particolare più spiacevole e, a conti fatti, il più pericoloso tra tutti.

Non appena lasciai le scuole elementari per passare al livello superiore, mi ritrovai a fare i conti con il Professor Oliver Thomson.

Ali ScarlatteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora