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Trecento chilometri più a nord.

Diverse ore dopo.

Il sole illumina la superficie infinita e maestosa del cielo. Le stelle lentamente sbiadiscono per lasciare spazio alle nuvole. Il buio, custode dei segreti e degli incompresi, è solo un lontano ricordo.

Il giorno nascente schiarisce, rendendo vivo tutto ciò che durante la notte è sembrato privo di importanza.

Piazza delle rose piange in tutta la sua desolazione e il suo degrado. La fontana non funziona dagli anni novanta, da quando sprigionava gradevolissime essenze arboree che i bambini annusavano a pieni polmoni mentre giocavano a palla e ad acchiapparello.

In molti si domandano chissà per quanto altro tempo non funzionerà, perché le pratiche di ristrutturazione sono lunghe e noiose, e il comune, d'altra parte, deve occuparsi di questioni ben più importanti che di una semplice piazza di Roma sud.

Ma se c'è gente triste a causa della bellezza deturpata di pizza delle rose, ce n'è anche altra che l'adora proprio perché, incutendo un certo timore nella maggior parte degli abitanti, può essere utilizzata come sede di incontri clandestini.

Mozziconi di sigarette, lattine di birre, bottiglie di vodka, il senza tetto sdraiato per terra, piante secche e trascurate, la puzza d'erba e di bruciato: piazza delle rose è tutto questo e molto altro.

Nella città mezza addormentata regna ancora una sorta di calma apparente.

I rumori del traffico sono echi lontani e attuti che si perdono nell'aria tiepida e pungente, piena dei vocii concitati e delle risate roche di un gruppo di ragazzi, quasi tutti sui vent'anni e senza lavoro, con il titolo di studio seppellito nel cassetto e famiglie disfunzionali alle spalle.

I loro volti sono segnati da espressioni scontrose e sardoniche, mentre i corpi ostentano atteggiamenti spavaldi e provocatori. Hanno quell'aria indolente e menefreghista di chi ha già deciso che non farà nulla, per l'ennesimo giorno di fila.

Sono stati svegli tutta la notte, ma non hanno ancora sonno. Sono mezzi sballati e ubriachi, eppure di ritornare a casa non se ne parla. A dire il vero, alcuni di loro una casa non ce l'hanno neanche; oppure ce l'hanno ma sanno che è meglio non metterci piede per un po' di tempo. Preferiscono starsene lì, con le mani nelle tasche, a discutere di una figa pariolina che hanno conosciuto l'altra sera in disco.

In mezzo agli altri, sdraiato su una panchina come una sorta di Dio sceso in terra, c'è anche lui: Davide Angelucci, alto e slanciato, fisico solido ma longilineo, spalle larghe ma rilassate, dopo una nottata devastante in giro per Roma.

Sulla pelle pallida, dal collo fino alle scapole sporgenti, si intravedono le ali spiegate di una grande aquila, sigillata con l'inchiostro nero. Poi, più giù, un giubbotto di pelle con il bavero rialzato e il colletto a campana, jeans larghi slavati, Dr Martens ai piedi. Un braccio infilato sotto la testa, la nuca appoggiata sul palmo della mano a mo' di cuscino. Le gambe, lunghe, incrociate sulla caviglia e gli occhi, sfuggenti, pieni di pensieri inespressi, che fissano il cielo d'ottobre.

Lui una casa ce l'ha ancora (anzi, in realtà ne ha due). Ma passare il proprio tempo per strada, insieme a quegli altri stronzi che continuano a parlare e a scherzare con Gue Pequeno in sottofondo, sembra essere il male minore, per il momento.

Tutti sembrano sapere chi sono, dove stanno andando, cosa stanno facendo. Forse non è vero, si stanno solo nascondendo dietro una maschera come la sua. Eppure, sembra che lui sia l’unico a sentirsi così dannatamente annoiato, incazzato, indifferente, e mille altre cose a cui non ha per nulla voglia di pensare.

"In questo squallore troveranno la bellezza e arriverà la forza nella debolezza".

Una frase tratta dalla canzone "ruggine e ossa" rimbomba più forte delle altre.

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