6 -Passato-

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Davide. Un mese prima. Settembre

Passò una settimana, che trascorsi del  tutto strafatto, o quasi. Il giorno era diventato notte, la notte era diventata giorno. Avevo creato una mia routine che, se pur tossica, cercavo di rispettare nei minimi dettagli per non impazzire.

Sveglia all'ora di pranzo, che se andava bene, e la sera prima non avevo bevuto, tirato o fumato troppo, diventava quella dell'aperitivo, quindi le undici/dodici.

Poi andavo a fare colazione. Ad Ostia, se Luca era con me. Altrimenti nel bar sotto casa, e in quel caso trascorrevo un paio d'ore seduto al tavolo a scrivere tutto quello che mi frullava per la mente, uno dei pochi momenti in cui ero del tutto sobrio -mal di testa a parte.

Sul quaderno ci scrivevo soprattutto quello che mi stava accadendo nella vita: sensazioni, stati d'animo, avvenimenti, cose che se avessi avuto il coraggio, avrei raccontato a qualcuno in carne ed ossa.

Non rispondevo alle chiamate di mia madre e con Valeria ci vedevamo di sfuggita solo durante la cena, o in occasione di qualche festa organizzata da Barbara, la sua migliore amica.

Il pomeriggio era il momento più brutto della giornata, lungo, infinito, non passava mai. Di pomeriggio il mio umore cominciava a subire cambiamenti importanti. Quindi, prima di sera, cercavo di sbrigare quel tipo di cose che ancora riuscivano a tenermi a galla e che mi facevano sentire impegnato.

Tre volte a settimana facevo il bucato, le flessioni, gli addominali e tiravo qualche pugno al sacco da box con la musica a palla. Ogni giorno pulivo casa, pulivo me stesso e rendevo decente il mio aspetto.

Ormai avevo sostituto le camicie con le t-shirt, i pantaloni di lino con i jeans, i mocassini con le dr Martens.

Volevo che la gente, guardandomi, non mi riconoscesse, proprio come non riuscivo a riconoscermi io quando mi guardavo allo specchio.

~•~

Il terrazzino sul lido del mare di Ostia era poco affollato quel sabato mattina. Le tovaglie candide, ricamate ai bordi con motivi floreali, risplendevano sotto la luce del sole. I raggi filtravano attraverso i fori del grande gazebo e i camerieri in divisa si destreggiavano sapientemente fra i vari tavoli servendo vini costosi e cibi dal sapore afrodisiaco. Il fruscio delle onde si mischiava al chiacchiericcio della gente e al leggero ululato del vento. I lunghi capelli corvini di mamma volteggiavano per aria, mentre i suoi occhi mi fissavano.

Eravamo seduti all'ultimo tavolo libero che eravamo riusciti a trovare per l'ora di pranzo. Lei sorrideva, e io ho pensato che fosse un bene. Dopo infinite chiamate a tutte le ore del giorno e della notte, alla fine avevo acconsentito a vederla in un luogo neutro, dove non potevamo litigare. Glielo dovevo. Rimaneva pur sempre mia madre. La donna che mi aveva messo al mondo. Che mi aveva cresciuto. Curato.

«Che bel figlio che ho» se n'è uscita all'improvviso. «Proprio bello»

Aveva le labbra truccate di rosso e i capelli neri a boccoli sul seno, stretto nella camicetta di seta color latte che aveva indossato anche il giorno della mia laurea.

Il ricordo di lei che, con occhi orgogliosi, mi appoggiava la corona d'alloro in testa, mi è bruciato nello stomaco e ha fatto così male che per un attimo ho creduto di vomitare lì, davanti a tutti.

Dissimulando il dolore con un sorriso, mi sono sfilato gli occhiali da sole e li ho posati sul tavolo in attesa delle ordinazioni. «Eh beh, con 'na madre come la mia, mica potevo uscì brutto»

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