Il gioco cambia

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Washington, Olympia

A cinque anni Tom Capshaw aveva iniziato a giocare a calcio, a sette aveva vinto il premio come miglior giocatore della sua squadra. A nove anni era diventato il capitano della squadra e guidava i suoi compagni come solo i ragazzi più grandi erano in grado di fare. A scuola i suoi voti non erano altissimi ma i suoi genitori, Sarah e Jackson, avevano scoperto presto il suo talento innato per la musica, era stata una cosa piuttosto casuale, il figlio aveva uno spiccato senso del ritmo e, su loro consiglio, iniziò a prendere lezioni di piano, in seguito si aggiunse la chitarra e, solo per ultima, la batteria, che il ragazzino cominciò a suonare da autodidatta. La cosa incredibile era che riuscisse a portare avanti lo studio di ben tre strumenti, più gli allenamenti di calcio e i compiti scolastici -senza però spiccare particolarmente in classe-. Ma il calcio e la musica erano le sue due grandi passioni: un ragazzino talmente sicuro di sé, ma così fantasioso da aver bisogno di coltivare più hobby per trovare un equilibrio in una vita che di tranquillo non aveva niente. Era frenetica, come frenetico era lui. Era sempre stato tremendamente pieno di sé, a tratti prepotente coi compagni, ma per questo gli era stato riconosciuto il ruolo di leader. Sempre ben conscio delle cose che voleva, fin da piccolo il suo futuro sembrava essere abbastanza chiaro. Di certo non avrebbe studiato, ma di sicuro sarebbe diventato un musicista, magari un insegnante di piano o, perché no, uno sportivo, magari un calciatore.
A dieci anni decise di iniziare a far crescere i capelli: erano di un bel castano chiaro quando era più piccolino, quasi un biondo cenere ed erano andati man mano scurendosi con la crescita. A dodici anni aveva già i dread che gli arrivavano alle spalle. Fu in quell'anno che durante una partita cadde e si fece male al ginocchio. La contusione era stata presa alla leggera, così come ogni contusione che aveva riportato durante la sua breve carriera da calciatore, sarebbe guarita, tempo qualche giorno, si erano detti: ma lo aspettava una brutta sorpresa, in verità.
Il dolore non passava e il medico decise di far fare una radiografia a Tom: bisognava fare qualche altro controllo, consigliò, c'era una strana ombra tra femore e ginocchio.
Tom fece le altre analisi del caso al St. Peter Hospital e nell'attesa di un responso si sentiva come sospeso in un limbo: nessuno gli diceva cosa stesse accadendo e per lui la giostra continuava a girare, la vita da favola che faceva era ancora quella, nell'ignoranza che si può avere a dodici anni, quando sei poco più che un bambino.
I genitori non avevano voluto allarmarlo parlando di un possibile tumore alle ossa, ma poi cos'era un tumore? Tom non lo sapeva neanche, ma lo avrebbe imparato più tardi, quando la sua vita sarebbe cambiata radicalmente.
Qualcosa nello sguardo di mamma e papà era cambiato e bisognava andare in un altro ospedale, al Seattle Presbyterian, da un grande medico e, era solo un'intuizione, ma di colpo Tom percepì che la sua fiaba si stava trasformando in un qualcosa di diverso. Gli era stato diagnosticato un osteosarcoma. L'osteosarcoma, lo avrebbe saputo solo molto più tardi, è un cancro che colpisce un centinaio di persone all'anno, quasi sempre in età adolescenziale. Il tessuto tumorale si forma nella parte interna delle ossa e poi si espande, conquista spazio verso l'esterno, togliendolo alle cellule sane. I medici non fecero tanti giri di parole per dire cosa lo aspettava: dovevano curarlo, doveva aspettarsi mesi di ospedale intervallati da brevi rientri a casa, doveva essere forte perché avrebbe sentito del dolore, perché non sarebbe potuto andare a scuola, avrebbe dovuto interrompere gli allenamenti di calcio, le lezioni di musica, e doveva essere forte perché avrebbe perso i capelli, perché avrebbe dovuto restare a letto per giornate intere con un ago nel braccio. E se da un lato Tom era quasi contento all'idea di saltare la scuola, dall'altro era sconcertato, non capiva cosa gli stesse succedendo e aveva paura.
Dopo diversi cicli di chemioterapia, Tom dovette tagliare via tutti i dread e rasare i capelli a zero. Tom non aveva mai pianto, lui non piangeva, ma mentre i dread cadevano ai suoi piedi, uno dopo l'altro, qualche lacrima gli era scesa lungo il viso sbarazzino, quel viso dall'espressione spensierata che da qualche settimana a quella parte era cambiato, smagrito, impallidito. Aveva pianto quando suo padre aveva passato il rasoio elettrico sul suo cranio, lasciandolo nudo. Jackson aveva il cuore a pezzi, ma come la madre cercava di essere forte per suo figlio: si erano rifiutati di portarlo dal barbiere, volevano proteggerlo il più possibile dal mondo esterno e dalle voci, voci che immancabilmente sarebbero corse per il quartiere e tutti lo avrebbero saputo.
Qualche tempo dopo, finiti i primi cicli di chemioterapia, Tom venne operato, un'operazione lunga sette o otto ore, un intervento innovativo: gli tolsero l'ultima parte del femore, una ventina di centimetri di lunghezza, salvaguardando al massimo il tessuto sano. Al suo posto misero un tratto di protesi di femore in titanio. Tutto finito? Niente affatto. Altri controlli, altri cicli di chemioterapia lo aspettavano e per un anno fece fisioterapia tutti i giorni per tornare a muovere bene la gamba e il ginocchio. Si vedeva tutti i giorni con il fisioterapista ed era nato un rapporto speciale: ogni volta lui sapeva che gli avrebbe fatto male e Tom sapeva che avrebbe sentito dolore. Dopo un anno, Tom ne aveva ormai quattordici, i medici verificarono che la fusione tra il suo femore e la protesi non era perfetta. E via un altro intervento in cui vennero utilizzati dei frammenti di osso prelevati dalla sua anca. Un altro anno passò e medici, in uno dei controlli, scopersero una metastasi polmonare: altro ricovero, altro intervento. Intanto Tom aveva finito la scuola media e aveva iniziato il liceo, ma non era proprio semplice andare a scuola con le stampelle, il tutore e senza capelli. Aveva iniziato a comprare bandane e fasce enormi per capelli o cappelli stile beanie o scaldacollo che usava come cappelli: ne aveva per ogni forma e colore ma prediligeva quelle nere con motivi astratti sui toni del rosso e del viola. Tom aveva un viso a dir poco perfetto e il fatto che non avesse i capelli passava sempre in secondo piano: con due occhi come i suoi era impossibile stare a badare a cosa nascondesse sotto le bandane e i cappelli, erano color nocciola, sembravano cioccolato fuso e alla luce avevano delle screziature color ambra ad impreziosirli, oro fuso in un mare di cioccolato.
Il naso dalla forma perfetta, appena all'insù, era grazioso e gli conferiva un'aria quasi elfica. Negli anni era cresciuto e si era fatto sempre più bello, con quel suo carattere scontroso e pieno di sé, sembrava non lasciarsi abbattere affatto dalla malattia: la fronteggiava sfacciatamente, prendendola di petto.
Dopo la seconda operazione e la riabilitazione, Tom aveva sedici anni, gli era stato detto che non avrebbe potuto riprendere a giocare a calcio. Quella era stata la seconda volta che Tom aveva pianto, durante la sua adolescenza. Il calcio, insieme alla musica, era tutto quello che gli rimaneva: sapeva di non essere una cima nello studio e quanto desiderava un futuro nello sport? Ma anche quello, ora doveva essere accantonato.
Gli ultimi anni della sua adolescenza andarono avanti così, ospedale, casa, scuola, continue operazioni, cicli di chemioterapia che lo debilitavano sempre di più e lui che testardo di rialzava, senza darsi mai per vinto. Più e più volte i medici avevano ricordato ai genitori che, se Tom riusciva a riprendersi così bene dopo le operazioni e le chemio, era solo per merito suo e del suo carattere forte, sembrava che niente potesse abbatterlo ed era ben conscio anche del suo aspetto fisico, sapeva di non essere niente male: la piscina e fisioterapia avevano contribuito a scolpire quel corpo, asciutto, i muscoli esattamente al punto giusto, addominali da capogiro.
In ospedale non c'era anima viva che non conoscesse Tom: era passato, in tutti quegli anni, da pediatria ad oncologia, spostandosi di reparto in reparto, di piano in piano, crescendo. Aveva visto tante persone andarsene, tante altre guarire e altre ancora tornare: lui era l'unico ad esservi praticamente cresciuto dentro l'ospedale, non c'era stato anno in cui vi fosse stato completamente lontano, tornava continuamente per i controlli e puntualmente la PET s'illuminava, chemioterapia, operazione, radioterapia e i capelli, i dread, erano ormai un sogno lontano; nessuno sapeva cosa avrebbe dato per riaverli. A volte si metteva davanti allo specchio, chiudeva gli occhi e si immaginava coi dread lunghi fino a metà schiena, sperava quasi che, riaprendo gli occhi, li avrebbe ritrovati là al loro posto.
Tom era l'idolo dei piccoli umani del reparto di pediatria, conosceva a memoria i nomi completi di tutti i chirurghi, tanto da non utilizzare più il cognome per chiamarli. "Hey, Miranda!", "Hey, Jessica", "Hey, Maggie" e loro si indispettivano terribilmente, ma quanto si poteva essere arrabbiati con uno come Tom? Un paziente come Tom ti illuminava la giornata, era un piacere avere a che fare con lui: si sottoponeva a qualsiasi trattamento senza dire "a", sopportava qualsiasi tipo di dolore o effetto collaterale, non c'era niente che non avesse provato. Dicevamo? Tom era l'idolo dei piccoli umani: durante le ore ricreative, terminato il giro di visite, Tom, se non stava troppo male o impossibilitato a letto con qualche flebo o qualche ferita appena suturata, passava di stanza in stanza a far visita ai più piccini, suonava la chitarra, li aiutava con i compiti, anche se la maggior parte delle volte erano loro a dover spiegare le cose a lui.
Nel pomeriggio era il turno dei pazienti anziani, portava un tè alla signora della protesi all'anca, faceva una partita a carte col vecchio Sam, che si era operato al cuore, accompagnava al bagno i pazienti che si erano appena operati: tanto sapeva alla perfezione come dovevano essere mossi, presi e alzati e i medici si fidavano ciecamente di lui, avrebbero potuto dargli una laurea in medicina ad honorem.
Quando arrivava il suo turno di essere visitato, faceva lui il resoconto della propria cartella clinica: l'aveva imparata a memoria e recitava con un sorriso tutti gli aggiornamenti sul proprio caso.
"Come ti senti oggi?" chiese la dottoressa Maggie.
"Bene, come sempre, anche se a dire la verità mi annoio un po'" borbottò mentre tentava di vincere una partita a Tekken Dark Resurrection sulla propria psp.
Gli unici amici che aveva Tom, erano i pazienti, i medici e gli infermieri del Seattle Presbyterian: al di fuori, non ne aveva più. La malattia aveva spaventato più loro che lui, e non poteva di certo biasimarli: chi lo voleva un amico senza capelli e mezzo zoppo? Quando erano a casa dall'ospedale e la madre gli chiedeva con chi sarebbe uscito, Tom si limitava a rispondere con un'alzata di spalle, senza sollevare gli occhi dalla psp, o senza staccarli dalla tv. Non usciva mai, non usciva con nessuno dai tempi delle medie, non si era mai innamorato, non era mai stato fidanzato con nessuno e non aveva mai baciato. Ogni due settimane aveva preso a vedere uno psicologo per far sì che la terapia contro il tumore non lo buttasse troppo giù: Tom pensava che avrebbero parlato della morte, ma non avevano mai toccato quell'argomento, quando aveva capito che non l'avrebbero affrontato, ci era andato molto più tranquillo. Se mai gliel'avessero nominata, avrebbe iniziato a preoccuparsi seriamente; lui non aveva nessunissima intenzione di morire, la morte lo spaventava incredibilmente, spesso si fermava a pensare a come sarebbe stato, se ci sarebbe mai andato incontro, ma poi la paura si impossessava di lui e cercava di mettersi a fare qualcosa per non doverci pensare. L'idea di chiudere gli occhi e non sentire più nulla per sempre, di smettere di pensare per sempre, di cessare di esistere, lo terrorizzava terribilmente.
"Dovresti approfittare e farti qualche amico qui a Seattle" disse la madre mentre stirava una delle felpe enormi del figlio.
Si erano trasferiti a Seattle poco dopo che a Tom venne diagnosticato l'osteosarcoma, per stare più vicini all'ospedale e stressarlo di meno coi viaggi.
"Ce li ho gli amici" rispose lui, la lingua di fuori mentre tentava di far fuori il nemico pigiando tasti a caso sul joystick, "sono tutti in ospedale".
"MA GUARDA QUEL GRAN FIGLIO DI UNA PUTTANA!" urlò, alzando le braccia al cielo.
"Tom William Capshaw! Cosa sono queste parole?" lo rimbeccò lei, spalancando gli occhi.
"MI HA UCCISO, MA DAI! AVEVO QUASI FINITO LA MISSIONE!" protestò lui, lagnandosi.
"Tom! Non voglio più sentire quelle parole uscire dalla tua bocca!"
Tom aveva quasi diciotto anni, non giocava più a calcio da anni e quando non era in ospedale, passava le sue giornate a casa a giocare con le sue console, a suonare i suoi strumenti e a mangiare le cose che non poteva mangiare quando era in ospedale. I suoi erano abbastanza preoccupati dal fatto che non avesse amici al di fuori dell'ambiente ospedaliero: quando sarebbero guarito –perché loro ci speravano dal profondo del cuore-, cos'avrebbe fatto? Non aveva rapporti di amicizia con nessuno, se non con i malati o il personale dell'ospedale. Più andavano avanti e più questa consapevolezza li spaventava.

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Non sto andando via (Twincest, completa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora