Ho conosciuto un ragazzo

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  Tom era un ragazzo piuttosto chiuso, oltre ad avere un carattere abbastanza difficile, non amava parlare dei suoi problemi e, non avendo amici veri, non avrebbe comunque avuto occasione di parlarne a qualcuno. La malattia o l'intruso, come amava chiamarlo lui, aveva contribuito ad indurire il suo carattere: i lati già spigolosi del suo essere erano diventati taglienti. Per questo motivo i suoi rimasero sorpresi quando decise deliberatamente di tirare fuori un certo argomento, quella sera, a cena.
"Oggi in ospedale ho conosciuto un ragazzo" disse, giocando con la forchetta: quei cavolo di cavoletti di Bruxelles proprio non gli andavano giù e sua madre continuava a cucinarli!
"Un ragazzo? Intendi... un paziente?" CALMA! Sarah, cauta, calma! Testa il territorio, vacci coi piedi di piombo, non spaventarlo.
Tom scosse la testa: lo sguardo fisso sulle verdurine tanto odiate che sembravano mandargli dei segnali; mangiaci, dicevano, ti faremo bene.
Jackson lanciò uno sguardo a sua moglie, non sapeva come comportarsi, era lei quella brava in determinate cose! Con un'alzata di spalle le comunicò che non era il suo campo, quello e con un cenno della testa la incitò a chiedere di più: doveva fare qualche domanda, per diamine! Quella era una conversazione, una vera conversazione con loro figlio. Okay, Tom si era limitato a rispondere con un movimento della testa, ma non era pur sempre una risposta, quella? Ora toccava a sua madre, così si faceva una conversazione, botta e risposta, avanti!
"E chi era questo ragazzo?" chiese sua madre, cercando di non mostrare troppo interesse: non voleva infastidirlo, voleva che fosse lui a parlare; nel caso se la fosse sentita di dire qualcosa di più, era certa che lo avrebbe fatto.
Intanto Jackson le lanciò un segnale di OKAY unendo indice e pollice in un cerchio.
A quel punto Tom sollevò lo sguardo verso suo padre: uno sguardo omicida.
Allarme, erano stati scoperti i loro segnali di fumo.
"Perché non posso avere dei genitori normali?" chiese, lanciando in malo modo la forchetta sul tavolo.
"Tesoro" disse sua madre, scambiandosi uno sguardo col marito, erano entrambi in difficoltà.
Jackson si passò una mano tra i capelli "Tom, è così difficile sentirti parlare di..."
"Di cosa? Amici? Forse perché non ne ho? Vi stavo raccontando una cosa, perché dovete rendere le cose così difficili? Non potete ascoltare e basta per una volta? Senza fare troppe domande?" urlò, allontanando il piatto.
In verità non avevano fatto queste grosse domande, i due, ma quelle scenate da parte di Tom erano piuttosto normali e loro non se la sentivano di rimproverarlo più di tanto. Come potevano biasimarlo? Aveva iniziato a cinque anni quel calvario in ospedale e non aveva ancora finito e Dio solo sapeva quando sarebbe terminato.
"Tom, puoi raccontarci quello che vuoi, lo sai. Con noi puoi parlare di qualsiasi cosa ti passi per la testa" mormorò suo padre, allungando una mano verso la sua spalla, ma prima che potesse toccarla, Tom si ritrasse con uno scatto.
"NON TOCCARMI! NON SONO PIU' UN BAMBINO!" gridò, alzandosi dalla sedia per allontanarsi dal tavolo.
"Tuo padre stava solo cercando di dirti che-"
"LO SO COSA STAVA CERCANDO DI DIRMI! NON ME NE FREGA UN CAZZO!" e il vaso all'ingresso andò in frantumi: lo aveva lanciato contro il muro e, con quello, tutti gli ombrelli che c'erano dentro.
"STATE SEMPRE A DIRMI CHE DOVREI USCIRE, CHE DOVREI FARMI DEGLI AMICI MA IN REALTA' NON CI PROVATE NEANCHE A CAPIRE COME MI SENTO E COSA SIGNIFICA! Credete sia facile avere degli amici fuori dall'ospedale quando nove mesi su dodici devi passarli dentro ad operarti o a fare delle cazzo di chemio? Pensate che sia facile avere un cazzo di amico che non ti guardi come se fossi un alieno? Nel caso non ve ne siate accorti, non ho i capelli!" urlò, togliendosi la bandana a buttandola a terra. Era la sua preferita, quella ma la calpestò più e più volte. Lo psicologo aveva consigliato a Sarah e Jackson di lasciarlo sfogarsi quando capitavano quelle scenate, nei limiti della decenza. Jackson lo avrebbe anche rimproverato: c'era comunque da fargli capire che non poteva fare quello che voleva dentro casa, avrebbe finito per distruggerla, ma non ce la faceva. Come poteva rimproverarlo? Così facendo lo avevano viziato parecchio nel corso degli anni, ma chi poteva biasimarli? Il loro ruolo di genitori era diventato ancora più difficile con l'insorgere del tumore.
"CREDETE SIA FACILE AVERE DEGLI AMICI FUORI QUANDO NON HAI NIENTE DA RACCONTARE LORO? Oh, sai, con l'ultima chemio mi sono vomitato anche gli occhi, che sballo... e tu cosa hai fatto, invece?" continuò, gli occhi infiammati di rabbia, rabbia mista a dolore, un dolore che davvero in pochi potevano capire a fondo.
"Credete sia facile avere degli amici quando non puoi fare neanche sport? Quando anche correre diventa un problema?" chiese ancora, ormai diretto verso le scale per salire in camera propria.
Non si sentiva altro se non le sue urla.
La verità era che ci aveva provato a raccontare loro di quel ragazzo della barretta al cioccolato, ma non ce l'aveva fatta. Perché? Semplicemente perché non erano loro le persone adatte per parlarne. Si chiuse in camera e si lanciò sul letto, affondando il viso nel cuscino. C'era un dolore che lo logorava da dentro, un'ansia inspiegabile, una voglia incredibile di urlare, di raccontare e raccontarsi, ma non c'era nessuno con cui farlo. Non si era mai sentito così male, neanche la chemio era stata in grado di farlo sentire male come quella sera. Aveva una frustrazione che gli esplodeva da dentro, violenta, implacabile e soffocò un urlo disumano contro il cuscino. Piangere gli avrebbe fatto bene, probabilmente, ma Tom non era capace, se non portato al limite. Quella sera ci stava andando vicino, come ci era andato vicino quando aveva dovuto tagliare gli amati dread, come quando gli era stato detto che non avrebbe più potuto giocare a calcio, ma non ci era ancora arrivato a superarlo. Quindi urlò, urlò tutto il dolore che aveva dentro e si alzò dal letto, afferrò coperte e lenzuola, tirando via tutto, strappò dalle pareti i poster dei suoi idoli e lanciò a terra la lampada che gli aveva regalato sua madre. Forse piangere sarebbe stato meno distruttivo, ma Tom non ne era capace.
Quella notte dormì riverso sul pavimento, quando la stanchezza lo sorprese, ancora gonfio di rabbia, inerme: cos'avrebbe mai potuto fare per sentirsi meglio? Non ne aveva idea. L'ultima cosa che vide, chiudendo gli occhi, fu quel viso pallido con gli occhi cerchiati di nero. E gli venne in mente che non aveva anima viva a cui raccontare di una stupida barretta incastrata che gli aveva fatto conoscere quel ragazzo. Non aveva nessuno a cui poter raccontare le cose più stupide, quelle che facevano di lui un ragazzino.
Non aveva nessuno a cui urlare che, per la prima volta, non si era sentito un malato di cancro ma semplicemente Tom.

Non sto andando via (Twincest, completa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora