Tom quella mattina aveva saltato la scuola per andare dallo psicologo, ne aveva davvero bisogno: sua madre lo aveva chiamato la sera prima, dopo la scenata a cena.
"Tua madre mi ha detto di ieri sera" disse il medico, aspettando una spiegazione da parte del ragazzo.
Tom se ne stava appollaiato sullo sgabello, come un condor in attesa della sua preda, non si sapeva perché preferisse lo sgabello alla poltrona, il più delle volte. Il primo era scomodo come pochi e necessitava anche di un certo equilibrio da parte di chi sceglieva di sedervisi su.
"Che è successo?" chiese il dottore, notando come Tom non parlasse. Ci voleva sempre tutto l'impegno del mondo da parte sua per far sì che parlasse e gli raccontasse le cose, si vedeva che non era affatto abituato a parlare di sé e dei suoi problemi.
L'espressione del ragazzo era impenetrabile, non osava guardarlo in viso: entrambi sapevano del senso di colpa, l'enorme e oneroso senso di colpa che lo riempiva, arrivava a riempire la stanza, li schiacciava entrambi, ma nessuno dei due osava parlarne. Il medico non ne parlava perché doveva essere Tom a prendere l'iniziativa e Tom non ne parlava perché se ne vergognava da morire, con quel suo cappuccio indossato sopra la bandana, sembrava volersi proteggere dal mondo esterno. Un mondo che non aveva mai conosciuto veramente, un mondo che, dopotutto, gli faceva paura da morire. Lui era il padrone incontrastato dell'ospedale, cosa mai poteva saperne del mondo là fuori? Per quel poco che aveva visto, non gli era affatto piaciuto! Le persone sembravano volerselo mangiare, sembravano volerlo calpestare ovunque andasse. Lui resisteva, sapeva di essere forte, ma forse non lo era abbastanza, forse non aveva abbastanza esperienza per quel mondo così grande, gli serviva una mano...e Tom non sapeva chiederla, una mano. Aveva sempre pensato male di quello psicologo, secondo lui a volte diceva delle cose specifiche perché voleva farlo piangere: era sicuro che sua madre gli avesse detto come lui non piangesse mai e questo non era un bene secondo loro. Ma quanto potevano essere stupidi tutti quanti? Perché avrebbero dovuto farlo piangere? Lui stava benissimo così, non aveva bisogno di versare delle stupide lacrime, non aveva bisogno di aiuto! Era lui contro il mondo! Nessun altro avrebbe potuto capirlo, né tanto meno quello stupido psicologo.
"Vuoi dirmi che bisogno c'era di distruggere la casa? Cos'è che ti fa rabbia? Che è successo? Che è scattato?" chiese, cercando di farlo arrabbiare, cercando di pungere là dove sapeva che non c'era armatura.
"Non ho distrutto niente!" urlò Tom, guardandolo ferocemente.
"A me è stato riferito diversamente" insistette lui.
Senso di colpa. Profondo e indelebile senso di colpa. Senso di colpa nei confronti di quei genitori che le provavano tutte per aiutarlo, ma che non potevano, non riuscivano a farlo davvero.
"Ho l'impressione che tu ti stia chiudendo un po' troppo in te stesso, non hai amici e non ti impegni per fartene, hai bisogno di parlare con qualcuno di quello che ti succede. Io sono pagato per questo, quindi racconta a me qualcosa, avanti" disse il medico.
Tom aveva voglia di scaraventargli la scrivania addosso "Anche tu con questa storia? Ma cosa ne potete sapere voi? Lei ha ancora i capelli, mi pare e non deve passare la maggior parte della sua vita in ospedale per sottoporsi a chemioterapie e operazioni!" esclamò, torturando la manica della felpa coi denti, l'aveva quasi strappata.
"Stai facendo la vittima" replicò duramente il medico.
"NON E' VERO! IO NON FACCIO LA VITTIMA! IO LE VIVO VERAMENTE QUESTE COSE!" gridò Tom, fuori di sé. Possibile che nessuno lo capisse? Ma la verità era che il medico lo capiva, capiva benissimo cosa stava passando, ma non poteva permettere che il ragazzo si chiudesse così in se stesso, che "usasse" la scusa del cancro per evitare di affrontare quelli che erano i suoi blocchi psicologici. Doveva essere duro con lui, farlo sanguinare ed esporlo al pericolo, o un domani si sarebbe trovato male nel vivere quella che era la normalità, la vita di tutti i giorni.
"Perché non provi ad uscire, allora? Dovresti provare a vivere come se il cancro non esistesse, non devi farne la tua realtà quotidiana" suggerì, il tono aspro.
"BHE', NOTIZIA DELL'ULTIMO MINUTO, NEL CASO NON SE NE FOSSE ACCORTO, IL CANCRO E' LA MIA UNICA REALTA' QUOTIDIANA!" urlò ancora, gli occhi lucidi. Non poteva portarlo al limite, non poteva farlo piangere, non ci sarebbe riuscito.
"Quando il cancro non ci sarà più, rimarrai tu con questi mostri che tu stesso hai creato. Devi imparare a superarli, Tom, prima di rimanere da solo con loro, devi prepararti, devi iniziare a vivere. Ora è necessario che tu capisca questo. Smettila di usarlo come scusa. Tu hai paura, hai paura di vivere la tua vita normalmente e non posso di certo biasimarti, ti è stato insegnato a combattere contro il cancro fin da quando eri un bambino e lo hai fatto egregiamente, lo stai facendo egregiamente. Ma non è il tuo vero nemico, te ne sei creati altri, ben più grandi. Capisci la gravità della situazione?" cercò di aprirgli gli occhi a quella che era la realtà dei fatti.
Tom abbassò lo sguardo: ma cosa volevano che facesse? Lui non aveva idea di cosa dovesse fare.
"Devi farti degli amici, devi uscire, devi cercare di essere una persona normale e devi farlo ora che le chemio sono sempre meno frequenti, così come le operazioni. È ora, Tom, devi farlo, devi iniziare a farlo!"
"MA IO NON SO FARLO! NON SO COME FARLO!" gridò, scoppiando in lacrime, un pianto violento e colmo di rabbia, dolore, risentimento, senso di colpa e paura, una paura che poteva sembrare invincibile.
"COME VOLETE CHE FACCIA? IO NON SO COME SI FA, NON L'HO MAI FATTO, NON SONO MAI USCITO, NON HO AMICI E NON HO IDEA DI COME SI CREI UN'AMICIZIA!" afferrò il bicchiere di plastica con le penne dentro e lo scaraventò a terra.
"Tua madre mi ha detto che hai conosciuto un ragazzo, o meglio, che hai tentato di raccontarglielo. Vuoi dirlo a me?" chiese, allungandogli la scatola dei kleenex.
Tom si asciugò il viso con la manica della felpa, soffocando un singulto e scosse la testa in segno di diniego.
"Forse ti potrebbe aiutare scrivere un diario, che ne pensi?" suggerì il medico.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, come mai poteva aiutarlo uno stupido diario? Era un diario! Mica una persona con cui parlare!
"Okay, per oggi abbiamo finito, Tom, ci vediamo la prossima volta" concluse lo psicologo.
Tom uscì senza neanche salutarlo: sua madre era fuori ad aspettarlo.
"Tesoro, com'è andata?" chiese, seguendolo fuori dall'edificio.
"Di merda, come vuoi che sia andata? Voglio tornare a casa" disse, entrando in macchina e allacciandosi la cintura.
"Mi dispiace, lo psicologo ha suggerito che è meglio portarti a scuola, devi passare più tempo possibile con i tuoi compagni e cercare di fare amicizia" disse sua madre, guidando verso il liceo che frequentava il figlio.
Tom si morse a sangue il labbro inferiore: ma perché la sua vita doveva essere uno schifo totale?
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Non sto andando via (Twincest, completa)
FanfictionLa vita di Tom è come quella dei film, o almeno lo rimarrà fino allo scoccare del suo dodicesimo anno di vita. In che modo la malattia stravolgerà la fiaba di cui, fino a quel momento, è stato il protagonista? Quando subentrerà la figura di Bill a c...