Capitolo 9

103 18 6
                                    


Il sole era calato oltre le chiome cupe degli alberi e il crepuscolo si apprestava ad avvolgere la foresta di Elber nelle tenebre quando Mey smise finalmente di occuparsi dei feriti.
       Dopo che il re e il suo cavaliere erano andati a chiedere al capo del villaggio se poteva offrire loro un riparo, la principessa si era data da fare affinché il fratello potesse essere fiero di lei. Aveva passato il tempo accanto ai feriti più gravi, alleviando le loro sofferenze come meglio poteva, cambiando bende e portando loro vino e acqua, dando da mangiare a quelli che potevano farlo. La sua dedizione era rinvigorita dalla speranza che ora aleggiava nell'aria, insieme alla promessa di morte il cui odore era sempre più vago.
       La situazione era più semplice grazie alle risorse portate lì dal re, e alla presenza dei guaritori che lavoravano senza sosta per salvare più vite possibile. Osservando e imparando anche dai guaritori, aveva così appreso anche in parte la loro gerarchia, all'apparenza semplice ma in realtà piuttosto complessa. C'erano i sommi capi, che a quanto pareva non curavano mai ma si occupavano invece di dirigere e supervisionare il lavoro degli altri.
       Mentre cambiava le bende a un soldato, Mey aveva udito parlare di loro a un guaritore basso e grassoccio che si diceva insoddisfatto dei suoi superiori, che non appagavano mai i loro sforzi. Quel guaritore che aveva espresso il suo malcontento doveva far parte di una cerchia di ceto basso, eppure non sembrava di livello poco alto. Mey si era ripromessa di cercare un libro che parlava di quella gerarchia, non appena giunta al castello, sempre se le fosse stato concesso il permesso di ricevere quelle informazioni. L'avrebbe chiesto a suo fratello, forse lui sarebbe stato indulgente dinanzi alla sua pura e innocente voglia di sapere.
       Mentre rifletteva su quelle considerazioni sociali, sui benefici che i guaritori portavano e sui relativi problemi, aveva continuato a darsi da fare con bendaggi, ferite da chiudere, sangue da pulire. Due giovani soldati erano morti mentre lei intratteneva una conversazione con un ferito lieve, che appariva molto turbato dalla morte attorno a lui. Si erano fatti forza a vicenda e la principessa finalmente si era sentita utile; non le era mai accaduto prima nella sua vita, e le sensazioni che provava erano completamente nuove, tanto intense che più volte fu sull'orlo delle lacrime.
       I due corpi dei soldati erano ancora caldi quando ser Rudolf si era chinato su di loro e aveva offerto la sua preghiera agli dei perché quei poveri giovani potessero riposare in pace; Mey, incapace di far fronte alle sue emozioni, non si era unita a lui che col solo silenzio. Altre due vittime si erano aggiunte alla catasta di corpi ammucchiati nei carri.
       Quando suo fratello aveva infine fatto ritorno, Mey si era subito accorta che qualcosa non andava; era troppo pallido, i suoi occhi comunicavano una lacerante sofferenza e il cavaliere accanto a lui era teso e in apprensione. Poi aveva notato che dal braccio del re colava sangue, che finiva per imbrattare il mantello e la sua mano; era ferito. Ser Rudolf, giunto alla stessa sua conclusione alla vista del sangue, aveva assunta un'aria da tragedia, che gli era passata solo dopo svariati minuti da quando il re se n'era uscito dalla capanna senza degnarlo di ascolto. A lei invece aveva rivolto un delicato sorriso, che non era riuscita a ricambiare per l'imbarazzo.
       Ora Mey non era certa di voler affrontarlo di nuovo, ma l'angoscia che provava da quando poco prima aveva visto la sua ferita la spingeva verso la porta, per andare da lui a controllare di persona le sue condizioni di salute. Solo che temeva di sentirsi troppo a disagio e di non riuscire a reagire nella maniera adeguata, come le avevano insegnato. Il suo timore era di incepparsi con le parole o non sapere cosa dire; non voleva sfigurare in presenza del re, come una sciocca ragazzina. "Non posso permettermelo se voglio vivere serenamente" si ripeté per l'ennesima volta. "Devo fare buona impressione". Ripensando al loro primo incontro però cominciava a calmarsi, la sua paura era quietata dalla gentilezza che aveva visto in lui; gli era sembrato cortese e paziente, perciò si disse che non doveva avere alcuna paura nei suoi confronti, o almeno così sperava.
       Tentennò ancora qualche istante sull'uscio della capanna, infine si decise a muovere un passo verso lo spiazzo dove si erano accampati i soldati della nuova scorta, reggendo tra le braccia un fagotto di coperte malmesse. Quelle stesse coperte le suscitavano un senso di profonda vergogna, ma in fondo non era colpa sua di quello era accaduto e se il re non avesse avuto sin da subito alcuna intenzione di dormire scomodo non sarebbe partito dal castello.
       Annuì tra sé, convinta dei suoi pensieri, e avanzò lentamente per non dare nell'occhio; preferiva passare inosservata ed evitare ulteriori disagi. I cavalli era raggruppati verso sinistra, legati ai tronchi degli alberi più vicini, mentre gli uomini si erano radunati attorno ai fuochi; per lo più se ne stavano in silenzio, anche se qualcuno chiacchierava sommessamente e alcuni già stavano cenando con enormi tranci di carne, che cucinavano allo spiedo usufruendo del fuoco.
       Guardandosi attorno Mey individuò quasi subito suo fratello; era seduto con la schiena poggiata a un albero, un po' in disparte, da solo. Si avvicinò dapprima timidamente, poi si fece coraggio constatando che nessuno aveva ancora notato la sua presenza. Quando gli fu vicino si schiarì leggermente la voce per attirare la sua attenzione, poi abbassò lo sguardo ricordandosi le buone maniere.
       Si chiese se avesse dovuto sedersi, dato che nessuno aveva il diritto di elevarsi in altezza rispetto al suo sovrano, ma non ebbe il tempo di formulare nella sua mente una risposta a quella questione, perché in quel momento il re alzò lo sguardo. Lei si aspettava un qualunque rimprovero per il suo comportamento, invece ricevette un sincero sorriso, appena accennato e stanco ma con un'espressione che comunicava dolcezza. «Sorella, pensavo stessi cenando.»
       «No, mio signore, io... ho portato delle coperte.» Gli porse il fagotto di stracci che era riuscita a mettere insieme; erano per lo più cenci di un tessuto grezzo e ruvido, ma a qualcosa sarebbe di certo serviti.
       Lui sorrise nuovamente: «Se non c'è di meglio allora ti ringrazio. Basteranno per tenerci al caldo.» Afferrò il fagotto e Mey pensò che stesse sorridendo perché lei non aveva piegato le coperte, ma le aveva solamente raccolte come così com'erano, senza porsi il problema. Avrebbe dovuto trovare il tempo per farlo. Si sentì arrossire per l'imbarazzo e subito mosse un passo indietro per andarsene, ma lui la fermò.
«Aspetta. Siedi un po' con me, prima che scenda la notte e arrivi il gelo. Puoi anche mangiare se vuoi, i miei uomini ti offriranno i bocconi migliori.»
       «No, io... vi ringrazio ma temo di non aver appetito questa sera.» Era la pura verità; sentiva lo stomaco chiuso in una morsa, nonostante la fame patita fino a poche ore prima, forse dall'ansia di andarsene da quel posto, o per la tristezza che pervadeva il suo animo.
       «Siediti almeno, non è comodo per terra ma si può stare. Prendi una coperta.»
       «Come volete.» Mey cercò di sedersi nella maniera più elegante possibile, andando ad accomodarsi vicino a lui. Prese una coperta ma aveva l'aria di non servire proprio a nulla tanto era sottile e malconcia. Non sarebbero stati poi tanto al caldo con quegli stracci, pensò tra sé vergognandosi di non averci pensato prima.
       «Tieni, prendi questo» disse lui togliendosi il mantello. «Ti terrà al caldo.»
       «Ma voi come farete, io... no, non voglio essere di disturbo mio signore» provò a rifiutare Mey. Sapeva che il re era ferito, non poteva permettere che per colpa sua rimanesse al freddo.
       «Io sto bene sorella, non preoccuparti.» Ammiccò, indicando con la testa il cavaliere che riconobbe come colui che l'accompagnava; era il giovane dal destriero color della notte, Aaron se si ricordava bene. «Non avrò freddo, ho il suo mantello.»
       Mey vide che in effetti il cavaliere portava solo una cotta di maglia, così annuì e lasciò che il fratello la avvolgesse nel manto scuro. Un calore quasi inaspettato la invase, insieme a un particolare sentore di miele, vino e sudore, mischiato a quello forte della pelliccia umida. Non era sgradevole, anzi inspirò a fondo stringendosi nel tessuto caldo, strofinando il collo sulla morbida pelliccia che, come aveva immaginato, ricopriva anche la parte interna per tenere più al caldo. Si riempì le narici di quel profumo; era quello di suo fratello e pensandoci si sentì arrossire.
       Volse lo sguardo verso di lui che aveva assunto un'aria assorta, forse triste o preoccupata; il suo sguardo fissava un punto inesistente nel vuoto della notte, il blu dei suoi occhi appariva violaceo al chiarore rossastro delle fiamme poco distanti.
       «Mio signore, state bene?» chiese preoccupata.
       Lui si riscosse e la guardò scuotendo la testa. «No, in verità non sto affatto bene, ma non è tuo dovere preoccuparti. A quello ci penseranno i guaritori quando saremo tornati al castello.»
       «Come voi dite.» Mey non ebbe il coraggio di aggiungere altro per non sembrare sgarbata.
       «Non avere timore di parlare sorella, siamo praticamente soli» disse lui con espressione dolce e paziente. «Puoi dire ciò che vuoi, se qualcosa...» Non terminò la frase, perché fu colto da un attacco di tosse.
Mey ebbe l'istinto di avvicinarsi di più e allungare un braccio verso di lui, ma si fermò. Rimase in silenzio mentre lui si riprendeva. Respirava con affanno e aveva chiuso gli occhi, la testa poggiata al tronco dell'albero. Era fin troppo evidente che stava male, perché una smorfia gli adombrava il volto e goccioline di sudore imperlavano la sua fronte. "Febbre" pensò Mey, e una fitta d'angoscia la attraversò.   
       «Mio signore» disse piano, timorosa di apparire invadente. «State bene?»
       Lui annuì con lentezza. «Sto bene, non preoccuparti, è solo...». Di nuovo la tosse gli troncò le parole; si coprì la bocca con un fazzoletto e continuò a tossire per un tempo che parve interminabile.
       «Maestà, di nuovo la tosse...» Il cavaliere di nome Aaron si stava avvicinando, in viso si notava chiara la sua preoccupazione; Mey vi lesse anche un profondo sentimento che non riuscì a capire, forse era senso di colpa.
       «Mio signore, tutto bene?» Gli si avvicinò e s'inginocchiò di fronte a lui. Il re aveva smesso di tossire, ma appariva stremato come se avesse attraversato la distanza che li separava dal castello completamente a piedi e di corsa. Mey si accorse che tremava.
       Ser Aaron gli mise una mano su una spalla e lo costrinse a stendersi; usò le coperte come fossero un cuscino e si assicurò che il mantello lo coprisse bene. «Dovreste riposare, ve l'avevo detto no?» Quella frase suonava come un rimprovero, ma lei vi riconobbe affetto e angoscia. «Ora rimanete steso e riposate, d'accordo?»
       Lui annuì debolmente; aveva appena aperto gli occhi, ma tremava ancora e sembrava sudare molto; il suo viso era lucido e così sembrava persino più pallido. D'improvviso il cavaliere sembrò accorgersi della sua presenza; le rivolse un'occhiata strana, Mey non capì se fosse arrabbiato o solo sorpreso. «Principessa. Voi cosa ci fate qui?»
       «Sono venuta a portare le coperte, ser, ma ora me ne vado.»
       «No, io... non avevo intenzione di cacciarvi, perdonatemi, se volete rimanere avete tutto il diritto di farlo. Solo che qui fuori fa freddo, ma... indossate il mantello del re?» La sua espressione era perplessa e   
       Mey si sentì arrossire d'imbarazzo.
A toglierla d'impiccio per fortuna ci pensò suo fratello, che afferrando un braccio del cavaliere disse: «Gliel'ho dato io Aaron, tranquillo, non è un problema.»
       «Io... va bene mio signore, come desideri.» Sebbene apparisse ancora stranito, il cavaliere non osò dire altro. Si alzò per tornare dagli altri, ma un gemito lo costrinse a tornare inginocchiato accanto al suo re. «È la ferita non è vero? Vi fa male.»
       «No, no non è nulla» disse lui, ma un altro gemito involontario lo smentì subito.
       «Bisognerebbe richiudere quella ferita, non basta una semplice fasciatura» obiettò il cavaliere in tono deciso.
       «Ti sbagli, va bene così.»
       «Oltretutto» riprese lui senza ascoltarlo, «rischierai che s'infetti e allora il dolore aumenterà e rischiarai di morire. Ti prego mio signore, dammi ascolto.»
Il respiro del re si faceva pesante, Mey capì che stava soffrendo e non poteva sopportare di sapere di esserne in parte la causa. Era inutile continuare a negarlo; l'imboscata era stata tesa per uccidere lei. Molti soldati avevano perso la vita e suo fratello era rimasto ferito perché era venuto in suo soccorso. Non poteva restare lì senza fare nulla, in fondo aveva curato molti dei feriti, era in grado di farlo anche con lui, ne era certa.
       Aaron intanto continuava a insistere, finché il re infine annuì, convinto probabilmente dal dolore che si faceva più intenso. «Va bene Aaron, fa ciò che devi. Prendi un coltello, o il tuo pugnale. Basterà anche quello ma assicurati che sia ben caldo.» Faceva fatica a parlare, al termine della frase tossì molto. Le parve di vedere il fazzoletto sporco di una macchiolina di sangue, ma pensò di aver visto male.
       Il cavaliere annuì e dopo aver estratto il suo pugnale dal fodero si alzò e andò a posare la lama sopra il fuoco. Mey allora comprese cos'aveva intenzione di fare. Aveva visto farlo anche da ser Rudolf a qualche soldato ferito, una pratica dolorosa ma che sembrava funzionare. Serviva a cauterizzare la ferita. «Sorella, forse dovresti rientrare, fa freddo ormai, parleremo un'altra volta.» La sua voce era debole, si udiva appena. Un colpo di tosse lo obbligò a tacere, così Mey gli si avvicinò.   
       «Preferirei rimanere qui ancora un po' se per voi non è un dispiacere.»
       Dal suo sguardo sembrò contrariato, forse persino infastidito, ma annuì accondiscendente: «Va bene, come vuoi, se le ferite non t'impressionano puoi rimanere.»
       «Ne ho vedute fin troppe di ferite quest'oggi, ma almeno oramai ne sono abituata.»
       Lui scosse la testa: «Credimi Mey, ci vuole ben altro per abituarsene.»
       La principessa sussultò. L'aveva chiamata per nome, non con il suo vero nome ma con il nomignolo con cui lei amava farsi chiamare. «S-sì, certo, come dite voi» balbettò ancora incredula e piacevolmente sorpresa.
       Intanto ser Aaron era tornato, il pugnale che teneva in mano aveva la punta rovente del colore del rame. Inginocchiatosi scoprì la ferita scostando il mantello e la tunica che il re portava sotto. Mey vide che suo fratello tremava ancora, doveva fargli molto male, ma era evidente che si sforzava di non darlo a vedere, specialmente in presenza di una donna. Scorse anche qualcos'altro nel suo sguardo, un sentimento simile alla paura, ma diverso, come se un ricordo orribile stesse riaffiorando in lui.
       «Ardin, Barhan, venite qua, subito!» chiamò Aaron in direzione dei soldati che stavano accanto al fuoco. I due in questione, li vide seguendo lo sguardo del cavaliere, erano impegnati in quello che le sembrò un gioco a dadi, uno di loro tracannava lunghe sorsate di birra da un boccale. «Barhan, smettila di bere e vieni qua. Muoviti!»
       Mey lo sentì imprecare mentre rovesciava a terra il resto della birra e buttava in parte il boccale. «Un attimo dannazione! Perché diamine voi Kart avete sempre tutta questa fretta?» Sputò a terra facendo qualche gestaccio con le mani, continuando a imprecare. I capelli rossicci e la barba folta lo facevano assomigliare ai leggendari guerrieri barbari che nei tempi antichi scesero dalle montagne per fare razzie e conquistare il mondo. «Eccomi, che diamine vuoi maledetto di un Kart.»
       «Voi due, dovete tenerlo fermo» ordinò il cavaliere. «Tu Ardin tienigli la testa e fai piano, mi raccomando, invece tu Barhan tienilo giù mentre io cauterizzo la ferita.»
I due annuirono e si posizionarono secondo i suoi comandi.
       Mey guardò il fratello; era pallido e stanco, sperò che ser Aaron facesse in fretta in modo che potesse poi riposare.
       «Siete pronto mio signore?» chiese Aaron avvicinando il pugnale alla ferita. Solo allora Mey la guardò e represse l'istinto di distogliere lo sguardo. Sembrava una brutta ferita, i contorni erano molto arrossati, il braccio le pareva gonfio anche se non sapeva dirlo con certezza.
       «Cosa ti fa pensare che io non sia pronto da dovermelo chiedere?» ribatté lui sprezzante. I suoi occhi avevano una luce quasi folle; forse era quello che gli permetteva di sopportare un dolore simile. Mey ricordò una frase che aveva letto in un libro: Tutti i grandi sovrani hanno una parte di follia a renderli audaci. "E la fortuna aiuta solo chi ha il coraggio di affrontare vie impervie" rammentò con una stretta al cuore.
       «Va bene mio signore. Voi due, mi raccomando, tenetelo fermo.» Il cavaliere avvicinò un panno morbido alla bocca del re, che lo strinse tra i denti. Poi avvicinò di più il pugnale; all'inizio tentennò, poi lo appoggiò sulla ferita e lo tenne premuto per pochi attimi. Il corpo di suo fratello si contrasse, Mey sentì il suo grido di dolore soffocato dal pezzo di stoffa che stringeva in bocca; lo vide serrare con forza gli occhi, ma non si divincolò, probabilmente per la debolezza e la stanchezza.
       Quando Aaron tolse il pugnale dalla sua pelle ferita Mey vide che il buco provocato dalla freccia era cauterizzato. L'aspetto rimaneva orribile, ma almeno la ferita era richiusa.
       «Sarebbe stato meglio un ferro rovente, che un pugnale» osservò Barhan aggrottando la fronte.
       «Lo so, ma non ne abbiamo a disposizione» ribatté Aaron. Poi si rivolse all'altro: «Ardin, porta del vino. Subito.»
Il ragazzo corse a prendere una coppa con del vino, ma il re si rifiutò di bere.
       «Lasciatemi solo, per favore. Voglio riposare ora.»
       «Del vino ti farebbe bene» obiettò ser Aaron.
       «Non per la tosse Aaron, quindi non m'importa. Va' ora, obbedisci. Lasciami solo.»
       Il cavaliere chinò la testa, poi finì di bendargli il braccio, lo coprì bene con il mantello e tornò dagli altri con Ardin e Barhan al seguito, quest'ultimo che ancora spargeva bestemmie senza nessun apparente motivo. Mey allora fece per andarsene a sua volta, credendo di essere congedata.
       «No, aspetta» la fermò suo fratello.
       «Volete che resti qui con voi?»
Lui la guardò, gli occhi socchiusi e sofferenti, ma d'un tratto scosse la testa: «No, no, lascia stare, torna pure nella capanna. Qui fuori fa freddo, là dentro starai meglio.»
       Mey annuì, ma per un attimo fu tentata di rimanere là a fargli compagnia, era tanto pallido e sofferente che gli faceva pena lasciarlo solo. Ma in fondo aveva detto lui che lo lasciassero, per cui decise che era meglio non insistere. «Come volete.» Si alzò in piedi e si tolse il mantello, glielo posò sopra dolcemente, senza sfiorarlo né avvicinarsi troppo.
       «Buonanotte Mey» sussurrò lui con voce debole e leggermente rauca.
       La principessa s'inchinò, mentre dentro di sé sperava che quella ferita non fosse troppo grave. «Buonanotte mio signore» rispose accennando un sorriso. Andando verso la capanna si volse solamente una volta, chiedendosi se il giorno dopo suo fratello sarebbe ancora stato vivo.



L'undicesimo ReDove le storie prendono vita. Scoprilo ora