CAPITOLO VI

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Quella notte mi ritirai nel mio alloggio.
Chiusi la porta quasi sbattendola.
Ce l'avevo con me stesso per essermi fidato troppo di qualcuno dell'equipaggio, qualcuno che credevo leale e fidato rispetto a tutto il resto che albergava su quella nave, ce l'avevo con me perché gli avevo permesso più volte di tenerla d'occhio quando io non c'ero, senza capire le reali intenzioni di quell'interesse morboso e malato verso di lei da parte sua, che cercava solo un momento giusto, un momento in cui io non fossi presente per attaccarla, senza intendere che probabilmente il più meschino di tutti lì era lui che covava al suo interno un odio e una vendetta smisurata anche nei miei confronti.
Mi presi la testa tra le mani.
Per l'ennesima volta ero in conflitto.
Avevo promesso di proteggerla e invece l'avevo messa in pericolo io per primo.
Forse ero io l'egoista a volerla lì, tra quegli zotici senza alcun ritegno e rispetto, ma dove e come avrei potuta lasciarla?
Potresti andare con lei. Sussurrava una voce nella mia mente.
Quanto però sarebbe stata giusta quella decisione?
La mia vita era sempre stata in mare, non avrei potuto vivere senza sentire più quel leggero ondeggiare che negli anni mi aveva cullato.
Lei invece, avrebbe vissuto meglio con una stabilità sotto ai piedi.
Sembravamo due mondi differenti, eppure così vicini.
Girovagavo nella stanza buttando a terra ciò che trovavo. La rabbia che avevo in corpo non era sbollita nemmeno dando quell'ignobile uomo ai pesci cani. Al suo destino, a ciò che più meritava. Il mio animo da pirata era rinvenuto e aveva scelto l'opzione migliore per quel traditore, eppure in me c'è un fondo di incertezza e disperazione unita alla rabbia. Lei era ancora lì, sotto i miei strati pronta ad esplodere contro qualcuno, forse anche per questo preferii restare con me stesso. Solo in quella stanza a rimuginare e a non riconoscermi.
Far vedere ciò che ero, ciò che sentivo, non sarebbe stato un bene per lei.
Mi stavo piegando all'amore, quanto mi sarebbe costato tutto questo? Come sfuggirgli?

Ce l'avevo con me, e per altro.
Con quale faccia, con quali occhi avrei potuto guardarla?
Le avevo promesso protezione, le avevo promesso tutto ciò che a voce non riuscivo ad esprimere di fronte a lei, e l'avevo lasciata sola quella sera, come tante, per cosa? Per l'ennesima bevuta con la ciurma. Per l'ennesima sbronza.
Durante quella sera però, qualcosa mi scuoteva l'animo, come un presentimento che giungeva dagli abissi del mio essere.
Invece di divertirmi e sollazzarmi con le fanciulle della quale la stessa ciurma mi aveva fatto dono, pensavo.
Non facevo altro che pensare a lei, e le altre, che mi erano intorno sedute al tavolo con me, non esistevano. Sentivo vocii lontane ai quali annuivo per di più assente.
Non sentivo niente.
Sentivo solo i miei pensieri.
S'introduceva dentro di essi, dentro la mia stessa pelle e stava lì.
Era la cosa più bella, e pura che il destino avesse portato sulla mia strada.
Certo l'incontro iniziale non era stato dei migliori, e mai nella mia vita avrei pensato a come avrebbe influito su di me.
Quella boccale di birra restava davanti a me, senza che io pensassi davvero di berlo.
Le donne al mio fianco si avvicinavano, in abiti provocanti piene di voglia e io non riuscivo far nulla.
Qualcosa mi tratteneva. Qualcuno mi chiamava, forse.
Aveva uno strano potere su di me, e per un attimo venni spinto a credere che fosse una sorta di strega e che una sorta di maleficio gravava sul mio cuore.
Forse era lei stessa un maleficio intenta ad attaccare.
Scossi la testa e chiusi gli occhi.
Non poteva essere.
Io e la mia mente stavamo divagando.
Cercavo semplicemente un motivo a quello che mi stava accadendo da quando c'era lei, e considerare quell'eventualità significava percorrere la via più facile.
Lei era pura, bella e niente di tutto ciò era frutto di un sortilegio.

Pensavo a quello che sarebbe stato il futuro, che sarebbe arrivato per forza, non potevo impedirlo.
Non ero padrone del tempo, come non ero padrone nemmeno di lei e dei miei sentimenti ogni volta che mi allietavo nell'osservarla.
Di questi tempi sarei sembrato agli occhi di Esmeralda... come che aveva detto Emma una volta? Uno stalker, ecco.
Negli ultimi mesi, da quanto lei era entrata a far parte di quel vascello, sembrava esserci entrato un raggio di sole e tutto arrivava proprio dalla sua stanza.
Non ero più mosso da altre ambizioni, non ambivo più a saccheggiamenti, ad oro o ad altro, ambivo a lei, ero mosso da lei, in ogni mio giorno su quella nave.
Lo notavo da me che non ero più lo stesso.
Ambivo al suo cuore, volevo conquistarla.
Ma poteva accettare un pirata con tutti quei trascorsi di violenza e soprusi alle spalle? Mi chiedevo.
E forse era questo a bloccarmi ogni volta.
In altri casi mi sarebbe bastato possederla, divertirmi con lei come con chiunque altra, ma lei non era come le altre era questo il punto, quello che avevo dentro, forse per la prima vera volta, non era desiderio carnale, era tutt'altro, oserei dire che fosse un calore nel petto, una vampa che quasi bruciava e che si ridestava nella stessa maniera ora che avevo la consapevolezza che c'era anche lei, che non se n'era andata.
Ogni suo sorriso, era un mio sorriso, e come potevo ora far finta di nulla di fronte a quello che era successo?
Era difficile indossare la mia solita maschera di fronte a lei.
Con lei non riuscivo ad essere lo spaccone borioso, Il pirata astuto, sfacciato ed egoista con lei fuggiva e lasciava posto solo a quello che era in grado di essere per lei qualcosa in più, un appoggio, un ancora.
Pensai alla promessa che gli avevo fatto pochi mesi prima: E ti prometto che se tu troverai qualcuno fuori da questa nave, capace di amarti come tu vorrai e desideri, ti lascerò andare e non ti verrò più a cercare e me ne penti nuovamente, me ne pentii per ogni giorno seguente, perché era una promessa che era uscita da sé, senza prima rifletterci. Non c'era nessuna persona lì fuori, aveva detto.
Aveva ragione.
Quella persona non era là fuori, era lì accanto a lei e dovevo farglielo capire, perché non sarei stato capace di vivere senza.
Non ora che mi ero abituato a lei.
In qualche modo mi era stata affidata, e non si sa quando consapevolmente quella piccola donna dagli occhi smeraldo mi era entrata dentro fine alle viscere.
Non avrei potuto sradicarla, nemmeno se davvero avesse trovato qualcun altro lì fuori.
Non l'avrei mai lasciata andare.
Mi guardai le mani e le strinsi.
Possono albergare anche nella pelle i ricordi, le sensazioni? Perché a me sembrava fosse così. Mi mancava il contatto con lei, quel stringerla forte a me, quel tenerla al sicuro.

'Capitano!', intervenne un marinaio chiamandomi ancora cereo in volto.
Mi voltai ancora assente tra i miei pensieri, come quella sera.
'La donna a cui ha affidato la ragazza ha urgente bisogno di vederla'.
'Per quale motivo?', chiesi di spalle, mantenendo un certo distacco.
'Sembra che la ragazza stia male'.
Rinvenni a quelle parole.
Esmeralda stava male. Era di nuovo crollata come quella sera? E io me ne stavo lì egoisticamente a crucciarmi da quanto?
Era notte fonda.
Presi la lanterna e a passo svelto mi diressi nella stiva.
I due marinai di fronte alla porta, di guardia, alzarono le mani in segno di difesa, spauriti.
'Signore, eravamo qui quando è successo tutto. Noi non c'entriamo', si giustificarono.
Entrai spalancando la porta con troppa enfasi, la donna che le era accanto, sussultò.
'Signore...', si scostò da lei per venirmi incontro.
Di fronte a me una scena inverosimile si fece largo.
Esmeralda era distesa su quella branda, la sua branda, in preda a spasmi.
Lasciai il lume al marinaio che mi era accanto e corsi a tenerla e a sostenerla.
Era poco cosciente, dalle sue labbra emetteva suoni incomprensibili seguite da frasi sconnesse.
La strinsi forte, ma sembrava avere il terremoto in corpo.
'Cos'è successo?'.
'Non lo so, signore. L'avevo messa a letto quando pochi minuti fa ha iniziato a fare così', rispose la donna non sapendo che fare e temendo una qualche ripercussione.
Appena le mie mani toccarono le sue mani, ebbi un brivido.
Era freddissima.
Sembrava ghiaccio nonostante ci fossero tre coperte su di lei.
'Mastro! Prendi tutte le coperte disponibili sulla nave!', ordinai.
Quello ubbidì e sparì oltre la porta.
Ordinai alla donna di andare nelle cucine e trovare una qualche soluzione.
Anch'ella spari.
'Shh!' le intimai. 'Ci sono qui io. Ti tengo io' e la strinsi ancora più forte.
Le dissi cercando di calmarla.
Le sue mani erano incapaci di trovare un appoggio una stabilità, come tutto il resto del corpo che tremava tra le mie braccia.
Doveva avere la febbre davvero alta, e mi sentivo impotente.
La guardavo soffrire e non avevo soluzioni.
Lei cercava di tenersi ancorata a me, pur tremando come una foglia, la strinsi ancora di più, quasi ad assorbire quel tremore, quasi a prenderne una parte, quasi a guarirla.
Non sapevo se tutto questo fosse dovuto a quello che era successo, e cercai seriamente di non pensarci per non far peggiorare le cose.
Due marinai portarono un po' di coperte, mi scostai facendole poggiare la testa sul cuscino, e gliele misi addosso, una per volta.
Le misi una mano in fronte.
Scottava tantissimo. Presi la benda bagnata che era stata portata e gliela misi sulla fronte.
Mi allontanai di poco, prendendo a girovagare nella stanza teso.
Non sapevo cosa fare, mi sentivo inutile.
Quando una sua mano sfuggì alle coperte, attirando la mia attenzione.
'Non lasciarmi. Non stasera. Ho bisogno di te', disse tremante e debole. Corsi da lei e mi sedetti al lato della branda prendendole la mano.
Lei la intreccio alla mia, cercando di metterci forza.
Ce la misi io anche per lei, e presi la sua mano nelle mie.
'Non vado da nessuna parte', la rassicurai.

Vegliai su di lei quella sera, ma i suoi spasmi non accennavano a diminuire, ed era ancora freddissima.
Quella febbre sembrava non avere fine, ed era da tutta la notte che andava avanti così, fuori iniziò ad albeggiare.
La stanza era umida e stagnante, una leggera corrente passava dai troppi spifferi in quella stanza.
Come potevo pensare che potesse guarire lì dentro?
Aveva gli occhi puntati sui miei quella sera, e più volte vidi il desiderio di dirmi qualcosa, ma non ce la faceva.
D'un tratto intuii.
'Ci spostiamo da qui', le dissi.
Le avvolsi due coperte addosso e la presi in braccio di peso.
Lei cercò d aggrapparsi al mio collo con entrambe le braccia, ma sentivo la sua presa debole.
'Prendete le coperte e portatele nella mia stanza', ordinai passando ai due marinai.
Avevo deciso di portarla da me.
Quella stanza era più raccolta e calda rispetto a tutte le altre, e il letto era abbastanza grande e morbido affinché potesse riposare al meglio.
Un marinaio mi aprii la porta, e arrivati al letto la adagiai con cautela.
Le misi quattro coperte addosso e badai a lei come mai fatto prima di allora.
Per tutto il giorno pareva essere caduta nel sonno più totale, la sua fronte continuava a scottare, e io non facevo altro che andare su e giù dal ponte a controllare come stesse.
Non mi davo pace, sembravo in agonia anch'io.
La cosa non accennava a diminuire nemmeno nei giorni seguenti.
Erano passati tre giorni dall'arrivo di quella febbre ed era ancora lì dentro di lei, senza nessun modo per scacciarla.
La vedevo soffrire, lamentarsi e tremare.
L'aiutavo nel cibarsi, ma il più delle volte rifiutava dicendosi stanca.
E se l'avessi persa in quel modo? Non per mano di qualcuno, non per mano del destino.
Se l'avessi persa in quel modo per mano del destino?
Quasi a sottolineare il fatto che non potessi averla per sempre nemmeno se l'avessi trattenuta con me.
Era difficile da credere ma sembrava stesse andando proprio così.
Alcuni marinai sussurravano il peggio, e appena mi vedevano ritornavano alle loro mansioni zittendosi.
Non avevo neanche la forza morale per ammonirli.
Mi ritirai nelle mie stanze e ci restai per tutto il giorno, seduto sulla mia scrivania ad osservarla mentre dormiva in ogni minimo movimento, e a piangere per la prima volta come quando ero bambino.
Perché non bastava ciò che era stato, probabilmente ero destinato a quello, a soffrire, oppure le anime delle vittime passate su quella nave trovavano ingiusto come una donna destinata ad un riscatto dovesse avere una fine diversa rispetto a loro.
Forse qualcuno, da quella parte, la tirava a sé.
E io cosa potevo fare contro quella sciagura?
Ero a un passo dal perderla.

'Killian...', una voce debole mi stava chiamando.
Non capivo se stesse dormendo o meno, era facile per lei chiamarmi a volte.
Mi avvicinai piano e mi coricai lì accanto a lei.
'Killian, perché piangi? Sono qui con te'. Aveva detto lei, spiazzandomi.
'Non sto piangendo Esm'.
Cercò di sostenere uno sguardo derisorio, ma i suoi occhi erano vuoti, così come le guance.
Le presi la mano, e lei la intrecciò alla mia, era più ossuta di come la ricordavo.
Era dimagrita tantissimo negli ultimi tre giorni.
'Perché continui a nasconderti da me?', la sua voce era un debole sussurro.
Le sorrisi, di un sorriso stanco, cercando di non trasmetterle il peggio, ma lei se ne accorse.
'Non essere triste per me. Rivoglio il tuo sorriso, quello che mi riservi sempre'.
Mi sforzai di farlo.
Lei sorrise debole, in risposta.
Lasciò la mia mano e si avvicinò di più al mio corpo.
Mise una mano sul mio petto e sorrise ingenua.
Il suo tocco con la mia pelle sembrava aver preso fuoco.
Le misi un braccio intorno alla vita.
Era il primo contatto vero che stavamo avendo e non sapevo bene come comportarmi a riguardo.
Sicuro che non stessi delirando anch'io?
La osservai in quei gesti fatti con cautela, e non riuscivo a comprenderli appieno o molto probabilmente stavo elaborando le dinamiche di simili gesti facendoli confluire in una sola fine a cui non potevo credere.
Eravamo a pochissimi centimetri l'una dall'altra.
Timidamente avanzò verso il mio viso, mentre accennava degli sguardi veloci, e altrettanto piano avvicinò le sue labbra alle mie.
In tutto questo io ero fermo immobile ad osservare quella scena come se non stesse accadendo per davvero, e dimenticando per un attimo in che situazione fossimo.
Le sue labbra arrivarono alle mie e vi si adagiarono perfettamente.
Sentii il suo calore sulla mia pelle, e con cautela la strinsi a me ricambiando quei piccoli e teneri baci che mi stava donando, ancora in modo incredulo.
Il suo corpo era adagiato al mio, le mie mani erano sulla sua schiena.
Il suo corpo pareva così fragile e piccolo che temevo seriamente di farle del male con poco, specialmente ora con quella malattia.
Lei, dal suo osservava ogni mia reazione a quello che stava accadendo e mi pareva ancora più incerta, come se si domandasse se stesse facendo la cosa giusta.
Allora ritornai in me e presi le redini di quel bacio.
Non volevo renderlo sporco, villano, volevo che capisse che quel cuore che era sotto le sue mani e che in quel momento palpitava come un cavallo al galoppo era per lei, era tutto per lei.
E se quello era il momento giusto per farlo, anche fosse l'ultimo volevo dimostrarglielo.
Il bacio si fece più saldo, più vero, più deciso.
Potevo sentire il sapore delle sue labbra.
Spostai la mia mano sul suo viso ambrato e delicato e feci attenzione a non spezzare quel momento.
Lei seguiva i miei passi quasi fossimo in una danza e fece salire la sua mano su per il collo più coinvolta, più decisa.
La strinsi un po' più forte a me.
Non riuscivo a capire bene se quel momento fosse reale o meno, o se fosse frutto della mia immaginazione e di ciò che volevo.
Non pensai minimamente alla sua febbre, ai suoi dolori, e lei sembrava fare lo stesso.
Le mie mani erano nei suoi capelli, in quei capelli che più volte avevo solo sfiorato.
Lei stava al passo, staccandosi ogni tanto e guardando realizzare ciò che stava accadendo.
Dopo la ritiravo su di me, e la trattenevo per la nuca, lei dal canto suo teneva stretta la mia camicia come a trattenersi su qualcosa in quel bacio divenuto troppo passionale, che stava prendendo entrambi.
Dopodiché si staccò ansimante e quasi stanca.
La vidi assaporarsi le labbra e accennare un sorriso timido.
Le tolsi la mano di dosso rendendola libera.
'Non voglio andarmene da qui. Non voglio andarmene da te', accennò timida non guardandomi questa volta. Poi alzò nuovamente lo sguardo.
'Killian, io ti amo.', rivelò disorientandomi.
Non aspettò nessun cenno da parte mia, nessuna risposta. Forse per paura.
Si adagiò con la testa sul mio petto, a guardare oltre la finestra.
Io, dal canto mio continuavo a non crederci.
Mi toccai le labbra ancora incredulo a ciò che era avvenuto quasi di richiamo.
Era stato tutto così improvviso e non pianificato che non sapevo come altro reagire.
Per quanto tempo avevo anche solo immaginato quel momento?
E ora che era successo, com'era stato? Potevo considerarlo qualcosa in più rispetto a tutto il resto?
Per quanti baci avessi dato nella mia vita, nessuno valeva quello che era appena avvenuto.
Quel bacio aveva qualcosa in più, e tutto ciò che pensavo si rivelò essere non solo desiderio, ma qualcosa che nasceva da dentro.
Ciò che era avvenuto tra noi quella sera era qualcosa che si elevava al di sopra del resto delle cose, era come se le nostre anime si fossero toccate, e si fossero riconosciute.
Era difficile da spiegare ed esprimere persino per me.
'Anche io, Esm', non vidi la sua espressione ma immaginai il suo sorriso.
Prese la mano che aveva deposto sul mio petto e raggiunse la mia a pochi passi.
La incastrò alla mia, e io resi la presa più salda carezzandola di tanto in tanto con il pollice della mia mano.
Le baciai i capelli.
E restammo così per tutto il resto del giorno o della notte che era.
Che fosse buio o luce fuori poco importava perché la mia luce l'avevo trovata in quella nave, quella sera in quella stanza e ora era come se facesse parte di me.
Quella sera dormimmo abbracciati, così come lei si era addormentata. Ci girammo poco e le nostre mani non si disgiunsero quasi mai, e lo se lo facevano una delle due ritrovava l'altra.
E forse, anche stavolta sarebbe andata così.
Forse anche noi, in qualche modo eravamo destinati a ritrovarci.  


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